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francesco61dgl2 14 settembre
 
L'ARCHIVIO DELLE RECENSIONI
 
Gli sdraiati, di Michele Serra
 
Eri sdraiato  sul divano, dentro un accrocco spiegazzato di cuscini e briciole…Con la mano destra digitavi qualcosa sullo smartphone. La sinistra, semi-inerte, reggeva con due dita, per un lembo, un lacero testo di chimica... La televisione era accesa, a volume altissimo, su una serie americana nella quale due fratelli obesi, con un lessico rudimentale, spiegavano come si bonifica una villetta dai ratti. Alle orecchie tenevi le cuffiette, collegate all’iPod occultato in qualche anfratto. Non essendo quadrumane, non eri in grado di utilizzare i piedi per altre connessioni… A un certo punto ti sei accorto della mia presenza. Non ti sei voltato, hai mantenuto occhi e orecchie sui tuoi terminali e hai continuato a digitare…Ma hai sentito il bisogno di dirmi qualcosa…Mi hai detto: è l’evoluzione della specie.”
 
Avrebbe pure potuto intitolarlo così il suo ultimo libro, Michele Serra: l’evoluzione della specie. Perché tutto il volume è un interrogarsi sulla natura dell’attuale generazione di adolescenti, tanto tecnologici ed  iper-connessi quanto misteriosi e sfuggenti per la generazione dei padri e delle madri. Il punto di domanda di Serra, che questa indagine la conduce basandosi su un accurato studio comportamentale del proprio figlio diciassettenne, è semplicemente questo: ai nostri occhi di genitori quarantenni e cinquantenni i ragazzi  di oggi sono così perché è normale che siano così, perché da che mondo è mondo gli adulti non capiscono i giovani e viceversa, o siamo davanti, appunto, ad una svolta genetica, ad un’evoluzione della specie?
Domanda davvero interessante e destinata a restare senza risposta. Tra l’altro, la generazione che è diventata maggiorenne nel crepuscolo degli anni settanta (e alla quale chi scrive si onora di appartenere) psicologicamente è rimasta una generazione di figli e non è mai riuscita a   progredire in generazione di madri e padri. Restare nell’intimo “figli” e dover recitare giocoforza la parte dei “genitori” comporta sforzi adattativi tanto immani quanto inutili e , soprattutto, un profondo senso di smarrimento quando ci si accorge che il nostro voler essere genitori amicali, compagni e complici più che educatori, si infrange immancabilmente davanti al muro di indifferenza, abulia, apparente catalessi emozionale di gran parte dei giovani in età di liceo.
Per chi come noi il dialogo con i genitori l’ha  cercato e non sempre trovato, dovendo confrontarsi  con una generazione uscita dalla guerra mondiale e da una faticosissima ricostruzione che bollava come bagatellari  i bisogni e i travagli di una progenie ritenuta “fortunata”, è stato scioccante il rapportarsi con  figli che il dialogo non lo cercano affatto, che stanno rinchiusi nel cerchio magico dei rapporti telematici con i loro simili e della tv dei talent show e delle cucine da incubo. Un mondo fatto di social network, di wattsapp,  di tablet e smartphone che chiede solo di essere lasciato in pace, un Forte Apache che basta e avanza a se stesso e che dispensa dalle visite.
Ma ,mancando il nemico, non c’è più conflitto generazionale e le guerre, si sa, si fanno almeno in due. E’ un qualcosa che ci turba, un mare piatto che navighiamo senza bussole, perché i genitori hanno bisogno del conflitto così come ne hanno bisogno i figli. Le schegge e le scintille degli scontri generazionali non fanno solo “morti e feriti” (in senso metaforico, ovviamente), sono anche i vasi comunicanti che permettono la trasmissione dei saperi, il passaggio del testimone da un’epoca all’altra della storia comune. Anche le contrapposizioni più banali, come il sempiterno duello sui gusti musicali  (“ah  la musica dei miei tempi, altro che gli starnazzi di adesso”) sono un momento di crescita per entrambi i “duellanti”. Perché magari qualcuno tra i ragazzi, sentendo parlare di un De Andrè, alla fine potrebbe pure andarselo ad ascoltare e a qualcuno dei vecchi, chi sa, potrebbero piacere i Negramaro…
Credo sia questo il cruccio maggiore di Serra, la molla che lo ha spinto a scrivere un libro come Gli sdraiati: la paura di far parte di una categoria di padri che non potrà consegnare ai figli i propri ricordi, semplicemente perché il dono non è stato richiesto e in ogni caso non pare gradito. E allora l’ invito insistente, tra blandizie e minacce, che rivolge al figlio perché lo accompagni in una salutare passeggiata al Colle della Nasca, altro non è che  il desiderio di regalargli un’ennesima connessione, questa volta culturale e “di sensi”, con il suo universo valoriale di uomo di mezza età che alle elementari andava a letto dopo carosello, da liceale ascoltava Venditti e De Gregori e da universitario sfilava per le strade gridando (Moretti docet)  le sue “cose giuste”.
E’ un Serra superbo quello che si esprime ne Gli sdraiati, libro delizioso che si consiglia a tutti, padri e figli, nella speranza di un futuro con meno connessioni e più comprensioni.
 
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francesco61dgl2 02 settembre

LETTERA AD UNA FIGLIA

 

Su fascismo, antifascismo e Resistenza.

E’ di questi ultimi mesi il risorgere in Italia di antiche paure di revanscismo fascista, alimentate dalla vittoria elettorale di FdI e da manifestazioni ed aggressioni di cui si sono resi protagonisti esponenti della destra neofascista. Chi scrive tuttavia non ha mai creduto al  rischio di un ritorno all’epoca buia e tragica del ventennio, sia perché ritiene il Paese ormai adeguatamente vaccinato  in proposito e sia perché, se un pericolo in tal senso c’è stato davvero, esso è già stato vissuto e superato (anche se a fatica) negli anni settanta del secolo scorso, un’ epoca in cui tale pericolo - tra stragismo neofascista, assalti e vandalismi  di matrice squadrista nelle scuole e nelle Università e trame golpiste di vertici politici e militari - si è davvero toccato con mano, come un  nembo cupo e graveolente che ha appestato per oltre un decennio l’aria della giovane democrazia italiana.

Oggigiorno questa minaccia non c’è al momento e non è  neppure pensabile che ci potrà essere in futuro (organizzazioni giovanili della destra eversiva, commemorazioni e saluti romani  per ora non fanno testo: esistono da quando esiste la Repubblica…), il che ci permette di poter guardare al ventennio mussoliniano con  scontata condanna e scontato rifiuto ma, al contempo, anche di analizzarlo senza preconcetti e semplificazioni, due elementi che non fanno mai bene alla comprensione dei fenomeni politici e sociali.

Sappiamo tutti che la madre del fascismo è stata la prima guerra mondiale, un conflitto spaventoso che è costato al nostro Paese 600 mila morti e centinaia di migliaia di feriti e mutilati. Dopo Vittorio Veneto i reduci, al rientro nei ranghi della vita borghese, si scontrarono però con l’aperta e per loro incomprensibile ostilità delle masse operaie, che, pur non avendo partecipato al conflitto perché servivano in Patria per la produzione di beni e servizi, nondimeno ne avevano sofferto ugualmente le conseguenze, soprattutto in termini di costo della vita.

Ovviamente l’indigenza profonda e insanabile delle cd. “classi subalterne” non era certo una novità dell’immediato primo dopoguerra: in Italia la questione sociale affondava le sue radici nei secoli e nell’assetto stesso dello Stato sabaudo, retto da una ottusa oligarchia figlia del connubio tra l’arrembante e rapace  borghesia capitalistica ottocentesca e una nobiltà di toga e spada abbarbicata ferocemente ai propri privilegi feudali, sorde entrambe ( con le debite eccezioni, tra i politici, di Giovanni Giolitti e di pochi altri) a quelle istanze di partecipazione alla vita pubblica e maggiore giustizia sociale dei ceti subalterni che per tutto il corso  della seconda metà del XIX secolo e dei primi decenni del XX scatenarono proteste, occupazioni e ribellioni  puntualmente e ferocemente  represse, con morti e feriti. Fu tale e tanto il sangue versato negli anni precedenti la Grande Guerra da operai e contadini da indurre, dopo i morti di Milano del 1898, un convinto conservatore come Gabriele D’Annunzio, eletto in Parlamento nelle liste della Destra alle consultazioni dell’anno precedente, a lasciare per protesta gli scranni della sua parte politica per andarsi a sedere in quelli della parte avversa (“Vado verso la vita”).

Ma nel quadriennio 1919-1922, conclusosi con la marcia su Roma e l’ascesa al potere di Benito Mussolini, in questo conflitto permanente tra le istanze della manodopera delle fabbriche e dei campi e i privilegi di censo e casta delle classi dominanti, si inserì un elemento nuovo e dirompente: la rivoluzione bolscevica del 1917.

La rivoluzione russa mutò drammaticamente i termini della questione, radicalizzandola. Il movimento operaio decise di passare a forme di lotta più decise e cruente, nell’attesa di una sollevazione generale che instaurasse il regime leninista anche nella Penisola, ragion per cui in quegli anni si moltiplicarono le proteste, le aggressioni, i ferimenti e persino le uccisioni di proprietari terrieri,  imprenditori, reduci (reputati tutti “interventisti” e dunque colpevoli di aver fomentato, nel 1915, l’entrata in guerra del Paese) e membri delle forze dell’ordine. Aumentarono le occupazioni dei luoghi di lavoro, delle sedi dei partiti e dei giornali moderati nonché i feroci scontri con la forza pubblica. Fu l’avvento di un clima di vera e propria guerra civile che provocò pestaggi e decessi da una parte e dall’altra.

Il partito socialista, nel frattempo, si divise tra la corrente turatiana (moderata e favorevole alla via parlamentare per dar voce e peso ai bisogni dei ceti sociali  svantaggiati) e quella massimalista, fomentatrice delle agitazioni.

E il fascismo?

I fasci di combattimento furono fondati da Mussolini nel 1919 e fino alla marcia su Roma ebbero un numero esiguo di militanti, benché rumoroso, organizzato, muscolare e facinoroso, e una bassa attrattività nell’elettorato (alle consultazioni del 1921, dominate dai socialisti, non riuscirono a conquistare neppure un seggio). Mussolini, anche lui reduce di guerra nonché ex direttore del quotidiano socialista L’Avanti, espulso dal partito per le sue posizioni interventiste, inizialmente tentò a lungo e inutilmente di riaccreditarsi presso gli operai e l’opinione pubblica progressista, provando a dare ai Fasci, soprattutto attraverso la componente interna del socialismo interventista, una impronta di sinistra rivoluzionaria.

Purtroppo l’acredine dei reduci (frangia nettamente maggioritaria all’interno dei Fasci), in specie dei cd. arditi, per la palese ostilità delle classi popolari [1]nei loro confronti e la spinta   di alcuni dei suoi consiglieri più ascoltati, tra tutti Cesare Rossi, per una decisa sterzata a destra del movimento, condussero alla fine ad una lotta senza quartiere tra fascisti e simpatizzanti della sinistra, con uccisioni, ferimenti,  agguati, devastazioni e roghi delle sedi socialiste.

In tutto ciò ovviamente chi patì le perdite più gravi furono  i lavoratori, atteso che i loro avversari erano quasi tutti ex militari armati fino ai denti[2], provati da quattro anni di trincea e perfettamente adusi, dunque, alla violenza e alle tecniche di guerra.

Il biennio 1919-1920 si lasciò così dietro di sé una teoria infinita di scioperi selvaggi, lutti, soprusi e vittime che alla lunga finì  per spaventare (soprattutto per la sempre più incombente minaccia di una rivoluzione bolscevica) i ceti abbienti e la piccola e media borghesia  impiegatizia e delle professioni, favorendo il loro mefitico abbraccio, o quanto meno l’ignava acquiescenza, alla causa fascista, considerata il male minore sia dal re e dal suo entourage che dall’opinione pubblica moderata, nonché unico baluardo contro il pericolo rosso.

 

Il programma di San Sepolcro  e la Carta del Carnaro

Eppure sia il cosiddetto Programma di San Sepolcro che la Carta del Carnaro, redatta dal socialista interventista Alceste De Ambris, stanno lì a testimoniare che il partito fondato dal futuro Duce avrebbe potuto avere, qualora fossero riusciti a convincere l’elettorato socialista, una marcata impronta di sinistra. Invece il primo cadde nel vuoto, aiutando in tal modo le correnti misoneiste dei Fasci ad imprimere al partito una chiara svolta autoritaria, militarista e borghese, mentre il secondo evaporò con la fine dell’avventura fiumana del “Vate”.

 

Cosa prevedeva il Programma di San Sepolcro

Suffragio universale; voto ed eleggibilità per le donne (che in Italia potranno votare davvero ed essere elette soltanto alla fine del secondo conflitto mondiale); età minima di 18 anni per l’elettorato attivo e di 25 per quello passivo;  abolizione del Senato; giornata lavorativa di otto ore; istituzione per legge (legge che tuttora in Italia non è stata varata…) di un salario minimo; coinvolgimento dei rappresentanti dei lavoratori nella gestione delle aziende e addirittura l’affidamento, alle loro organizzazioni, della gestione di industrie e servizi pubblici; assicurazione sulla invalidità e sulla vecchiaia, con abbassamento dell’età pensionabile a 55 anni; istituzione di una milizia nazionale con compiti esclusivamente difensivi; politica estera  improntata a una collaborazione o ad una pacifica competizione con gli altri Stati; parziale espropriazione delle ricchezze attraverso l’istituzione di una imposta straordinaria progressiva sul Capitale; requisizione dei beni e delle proprietà degli enti ecclesiastici.

Come si può notare, un programma rivoluzionario e avanzatissimo per l’epoca, che si stenta davvero a credere che sia stato partorito da Mussolini e da una fazione dei suoi seguaci.

E’ vero che, anche nella sua spietata versione autocratica, il dittatore amico e protettore della grande finanza e della grande industria non dimenticò del tutto le sue origini proletarie e la sua militanza socialista, ma le iniziative di larvata vicinanza all’universo laburista (le famose e tanto decantate, dai nostalgici, “politiche sociali” del fascismo) furono alla fine ben poca cosa e in ogni caso sovrastate da tutto il resto dell’immondezzaio totalitario messo in piedi dal regime.

 

Cosa prevedeva la Carta del Carnaro

Non meno ambiziosa e audace, nonché anch’essa di strabiliante modernità, è la Carta della Reggenza del Carnaro (settembre 1919-dicembre 1920), in linea peraltro con lo spirito democratico e libertario che caratterizzò l’impresa dannunziana di Fiume, provocata dal mito della cd. “vittoria mutilata”, ossia della mancata annessione all’Italia, dopo la dissoluzione dell’impero austro-ungarico  (soprattutto per la manifesta ostilità, in sede di trattative di pace, del presidente americano Wilson),  dell’ Istria, della Dalmazia e di Fiume, promesse a suo tempo dall’ Entente Cordiale  (L'alleanza politico-militare tra Francia e Gran Bretagna), quale premio per l’ingresso dell’Italia nel conflitto.

Il suo estensore, il sindacalista rivoluzionario De Ambris, prima della promulgazione la sottopose al vaglio di D’Annunzio il quale, da impareggiabile prestigiatore della parola qual era, pare vi abbia apportato soltanto alate correzioni stilistiche. Il suo marchio di fabbrica, insomma.

La Costituzione di Fiume prevedeva le pensioni di invalidità, l' habeas corpus, il suffragio universale maschile e femminile, la libertà di opinione, di religione e di orientamento sessuale, la depenalizzazione dell'omosessualità, del nudismo e dell'uso di droga (sic…), la funzione sociale della proprietà privata, il corporativismo, le autonomie locali e il risarcimento degli errori giudiziari.

Praticamente un clone o quasi del Programma mussoliniano con in più però la libertà di orientamento sessuale e la depenalizzazione dell’omosessualità, due novità a dir poco sconvolgenti per la morale corrente e per le legislazioni statali dell’epoca.

 

Lo squadrismo ( 1921-1922), la marcia su Roma, la presa del potere, la crisi dello Stato liberale.

L’acuirsi delle tensioni sociali, l’intensificarsi degli scontri tra le opposte fazioni, il progressivo ingrossamento dei ranghi del fascismo (sempre più simile ad una bene armata organizzazione paramilitare) nella tacita condiscendenza della politica liberale, degli organi di Polizia da essa dipendenti e dell’opinione pubblica moderata, sfociarono infine nel putsch, nel colpo di mano istituzionale,  dell’ottobre del 22, nota come “marcia su Roma”. Una marcia che le truppe schierate da re Vittorio lungo tutto il percorso, per controllarla ed eventualmente reprimerla, avrebbero potuto far fallire senza neppure sparare un solo colpo di cannone ma che il sovrano, ansioso di placare i continui torbidi del dopoguerra e rassicurare il ventre molle della Nazione, non aveva alcuna intenzione di reprimere, rifiutandosi di firmare lo stato d’assedio proposto dal premier Luigi Facta e offrendo a Mussolini l’incarico di Capo del Governo.

Cominciava così, il 28 ottobre dell’anno 1922, il lungo inverno italiano della dittatura fascista.

 

L’omicidio Matteotti e il consolidamento del regime: 1925-1935

“Potevo fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli. Potevo sprangare il Parlamento e costituire un governo composto esclusivamente di fascisti. Potevo, ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto”.

Con queste raggelanti parole Mussolini, dopo mesi di violenze squadriste contro i partiti e i militanti della sinistra da parte delle milizie fasciste, il 16 novembre del 22, a quasi un mese di distanza dalla marcia su Roma, presentò alla Camera il proprio biglietto da visita di Capobanda matricolato per ottenere la fiducia dei parlamentari al governo da lui presieduto.

Dal 22 al 25, tuttavia, non si ebbe in Italia la piena percezione della degenerazione autoritaria degli apparati dello Stato. Percezione che invece si avvertì in tutta la sua drammaticità dopo il rapimento e l’assassinio, da parte di una banda di fascisti comandata da Amerigo Dùmini, dell’onorevole socialista Giacomo Matteotti. Avvenne lì il punto di rottura tra la, fino ad allora, compiacente borghesia liberale e il regime mussoliniano. Avvenne lì la presa di coscienza dell’enorme errore di valutazione commesso dalle forze politiche moderate dell’Italia post unitaria. Ma avvenne lì, in quei drammatici frangenti, anche una singolare convergenza di punti di rottura e punti di consolidamento del regime che, prevalsi alla fine i secondi sui primi, rinsalderanno il potere di Mussolini e dei suoi ministri fino al luglio del 1943 e al successivo epilogo di Dongo.

Benito Mussolini, infatti, uscito infine rafforzato – dopo aver rischiato il tracollo- dalla crisi del delitto Matteotti, nei successivi dieci/undici anni, ossia fino alle avventure militari e coloniali in Spagna, Eritrea ed Etiopia, godrà in Italia e all’estero di un prestigio e di una reputazione di statista inusuali per un despota golpista come lui.

Contribuirono a questa ritinteggiatura in salsa moderata dell’immagine del regime e del suo Capo: l’emarginazione degli elementi del PNF più indisciplinati, incontrollabili e maneschi, a vantaggio di esponenti moderati e illuminati come  Giuseppe Bottai, promotore delle prime leggi di tutela del patrimonio culturale e naturale del Paese e della prima, organica normativa in materia di urbanistica ed edilizia nonché protettore, in qualità di ministro della Cultura, di scrittori e artisti di sospetta e talvolta persino conclamata fede antifascista (leggasi, in proposito,l'ottima biografia di Bottai scritta da Giordano Bruno Guerri).

Contribuirono inoltre al temporaneo imborghesimento della dittatura, al di là di sabati fascisti, sfilate in orbace e salti del cerchio infuocato di staraciana memoria, il culto della personalità e l’aura di infallibilità e onniscienza che circondò Mussolini, offerto agli italiani dalla martellante propaganda di  regime come l’uomo della Provvidenza che paternamente si prende  cura di tutti i cittadini e dei loro problemi e, infine, l’alleggerimento, il lightening, delle misure repressive nei confronti delle fronde di intellettuali e politici d’opposizione (cattolici, liberali, socialisti e comunisti), in genere, e con le debite eccezioni, spediti al confino (Carlo Levi, Cesare Pavese).Per il resto, scese nel Paese un sudario opprimente fatto di occhiute censure, di capillare controllo dei mezzi di informazione e della vita quotidiana dei cittadini, di conformismo bigotto, di limitazione delle libertà, ma l’Italia profonda, piccolo borghese, abituata  da  secoli a doversi adattare ad ogni giravolta del potere (“Il signore è andato a sinistra, ma ritorna a destra per l'ora di cena”,  Leo Longanesi),  in fin dei conti, al contrario di una parte degli intellettuali e del proletariato,  non sembrò soffrirne più di tanto, prova ne siano le spontanee adunate oceaniche inneggianti al regime e al suo leader in occasione  dei discorsi di Mussolini da Palazzo Venezia.

Insomma, nei dieci anni che precedettero l’avventurismo africano e,  in seguito, lo sciagurato imbertonimento di Mussolini per Hitler, con  le conseguenti, odiose leggi razziali emanate per ingraziarselo (malgrado il sincero e talvolta anche appassionato contributo al fascismo fornito fino ad allora da moltissimi ebrei italiani) , la dittatura in orbace – feroce, ridicola  e ottusa come tutte le dittature –  in definitiva si imbolsì, rifacendosi il trucco e rendendosi in tal modo bene accetta all’ opinione pubblica nazionale e internazionale e alle principali Cancellerie europee (sono rimasti memorabili gli attestati di stima per Mussolini di statisti come Winston  Churchill, dell’accademico  Farrere, del Mahatma Gandhi e della rivista americana Times).

Molta di tale agiografica visione del regime nonché della popolarità del suo Capo in Italia e all’estero nel corso di quegli anni, va fatta risalire solitamente alla titanica impresa della bonifica delle paludi pontine (celebrata nei due famosi romanzi del compianto Antonio Pennacchi) e alla mistica delle porte aperte. E’ cosa nota, infatti, che con l’avvento della dittatura i crimini in Italia erano misteriosamente spariti, evaporati come d’incanto, ragion per cui gli onesti cittadini potevano tranquillamente dimenticare le porte di casa aperte persino di notte, anche perché la solerte e onnipresente milizia con le sue ronde notturne vigilava affinché il mito non venisse incrinato da qualche criminale incosciente.

Ma sono tre i fattori che davvero hanno contribuito in quegli anni ad alimentare il consenso delle masse verso l’uomo di Predappio e il suo partito: l’aura di infallibilità del leader, sapientemente forgiata ad arte nella costruzione del “personaggio” Mussolini;  la sua sbandierata disponibilità ad interessarsi e risolvere direttamente i problemi di ciascun cittadino della Penisola, per umile e privo di mezzi che fosse (quasi una sorta di versione, riveduta e corretta,  del “giudice a Berlino” di Brecht: “Ci pensa Mussolini”); l’esaltazione continua del primato dell’Italia nel mondo e della sua missione “civilizzatrice”, in qualità di erede diretta dell’Impero romano, che vellicava l’orgoglio nazionale e provava a rimettere il Paese al centro dello scacchiere internazionale.

Non ha importanza che tutto ciò non fosse vero o perlomeno enfiato, è importante che la poderosa macchina propagandistica, condotta da periodici fascistissimi come il Tevere di Interlandi o il  Popolo d’Italia, lo veicolasse in maniera ossessiva e convincente.

Tutto questo apparato di cartapesta crollerà miseramente con l’invasione dell’Etiopia e la successiva partecipazione alla guerra civile spagnola a sostegno dei franchisti, che alienò all’Italia le simpatie franco-britanniche, e poi con il Patto d’Acciaio, ossia l’alleanza con la Germania hitleriana, che non incontrò affatto il favore della popolazione e alienò a Mussolini  le (tiepide in verità[4]) simpatie di nazionalisti notoriamente antitedeschi come D’Annunzio (che definì Hitler “pagliaccio feroce”, “marrano dall'ignobile faccia offuscata sotto gli indelebili schizzi della tinta di calce di colla”, “ridicolo Nibelungo truccato alla Charlot”, Attila imbianchino” ) e come la Sarfatti, da sempre favorevole, in sintonia con l’inquilino  del Vittoriale, ad un rafforzamento dei rapporti  dell’Italia con la  Francia  e  che alla fine, in quanto ebrea,  dopo l’entrata in vigore delle leggi razziali andrà in esilio proprio nella patria di Voltaire.

Incombevano ormai sulla Penisola, dunque, gli anni della tragedia bellica, della guerra civile, della faccia più ferina e lutulenta del fascismo e dei suoi esponenti, di Giulino di Mezzegra.

Reputo tuttavia superfluo soffermarmi su quest’ultima, stranota fase di esistenza della tirannide in orbace e del suo artefice, una fase contrassegnata, da Salò in poi, da torture, stupri, esecuzioni sommarie, rastrellamenti, complicità nelle stragi naziste di partigiani e cittadini inermi. Un film dell’orrore che ha avuto la parola fine davanti ad una villa sul lago di Como, con la restituzione dell’Italia alla democrazia e ai suoi cittadini.

Un film dell’orrore però, è anche onesto ricordarlo, la cui regia, nella Repubblica Sociale, va imputata più al delirio di follia, ferocia, sadismo e disumanità dell’entourage mussoliniano che allo stesso Mussolini, un uomo ormai depresso, debole, irriconoscibile e privo di qualsiasi potere decisionale. Un autentico fantoccio nelle mani dei tedeschi e dei suoi psicopatici gerarchi, che anzi espressamente condannò, come riportato da Montanelli in un volume della sua Storia d’Italia, le rappresaglie e le stragi commesse dai militi di quello Stato fantoccio di cui lui era ormai soltanto un ectoplasmatico leader, la cui opinione contava meno di quella dell'ultimo dei suoi domestici.

 

Il rapporto del fascismo con artisti e intellettuali

Singolare invece è la vicenda dei rapporti del regime con l’intellighentia nazionale dell’epoca.  Rapporti che, pur in presenza di una censura poliziesca vigile e pedante, hanno ugualmente consentito il fiorire, tra gli anni venti e lo scoppio del secondo conflitto mondiale, di una eccelsa generazione di scrittori, giornalisti, poeti, pittori e architetti, autori di opere tra le più celebrate e qualitativamente elevate del panorama culturale italiano ed europeo del 900.

Resta quindi tuttora inspiegabile, soprattutto alla luce del sudario di conformismo, repressione e mediocrità che avvolse la cultura tedesca, con il programma di “allineamento della cultura” di Joseph Goebbels, e quella russa (Bulgakov a parte) dopo la salita al potere di Hitler e Stalin, la vivacità e la ricchezza creativa italiana di quel periodo, specie tenendo conto che sì, tante eccellenze letterarie e artistiche nazionali  sostennero  convintamente e per anni il fascismo, per poi in larga parte allontanarsene, ma tante altre non si curarono mai di nascondere fin dall’inizio la propria distanza politica e morale dalla dittatura, senza però per questo subire censure o persecuzioni.

Pertanto, come acutamente ha fatto notare Giampiero Mughini, uomo di sinistra, contestando un giudizio tranciante di Norberto Bobbio nel suo volume sul giornalista siciliano Telesio Interlandi, direttore del ripugnante  quindicinale  “La difesa della razza” (“A via della Mercede c’era un razzista”), è una fola bella e buona quella del profondo isterilimento vissuto dall’ universo culturale italiano nel periodo fascista. Basti ricordare, per smentire questa ricostruzione totalmente farlocca e ingenerosa, che gli anni venti e trenta del novecento ci hanno “regalato” letterati del calibro di  Alberto Moravia, Elio Vittorini,  Vitaliano Brancati, Guido Piovene, Corrado Alvaro, Curzio Malaparte, Giuseppe Ungaretti, i premi Nobel Luigi Pirandello e Grazia Deledda, Eugenio Montale, Giovanni Papini, Ardengo Soffici, Giuseppe Prezzolini, Carlo Emilio Gadda, Vincenzo Cardarelli; critici letterari come Emilio Cecchi; critici d’arte e mecenati di pittori come Margherita Grassini in Sarfatti (sì, proprio lei: amante di Mussolini e  prima storica dell’arte italiana),  giornalisti della statura di Mino Maccari e Leo Longanesi, filosofi come Benedetto Croce.

Altrettanto ricca è anche la bacheca delle arti figurative e dell’architettura, con nomi del livello di Mario Sironi (tra i fondatori della rivista Novecento), Fortunato Depero, Pietro Annigoni, Giacomo Balla, Gino Boccasile, Luigi Bonazza, Corrado Cagli, Duilio Cambellotti[5], Massimo Campigli, Carlo Carrà, Michele Cascella, Felice Casorati, Renato Guttuso, Giorgio Morandi, Bruno Rosai, Luigi Russolo, Gino Severini, Ardengo Soffici, Adolfo Wildt, Adalberto Libera, Marcello Piacentini, Giulio Aristide Sartorio (il pittore romano autore  dei 50 pannelli dell’Aula di Montecitorio).

Fucine inesauribili di talenti e di effervescenza intellettuale furono poi le riviste pubblicate nel corso del ventennio, periodici che hanno segnato un’epoca e formato una generazione intera di grandi giornalisti italiani: Solaria (la più importante di tutte, anche se fondata ben prima del fascismo), Dedalo e Pegaso, dirette dal grande Ugo Ojetti, Critica fascista e Primato, fondate da Giuseppe Bottai, Quadrivio,  settimanale diretto dall’ onnipresente Telesio Interlandi[6] e che ha ospitato, tra gli altri, scritti di Francesco Jovine, Alberto Moravia ed  Ennio Flaiano (oltre ad aver assunto, nei suoi giornali, insieme ad un giovanissimo Giorgio Almirante, un altrettanto giovanissimo Antonello Trombadori, futuro onorevole comunista e già allora ideologicamente legato alla falce e martello).

Molti dei personaggi citati mutarono in seguito fede politica, in genere transitando sotto le bandiere rosse del PCI (due nomi su tutti: Vittorini e Guttuso, entrambi siciliani), altri si riciclarono comunque nella nuova realtà dell’Italia repubblicana, pochissimi quelli che non rinnegarono la loro originaria militanza.

Questo lungo viaggio nei fervori narrativi e artistici del ventennio e nelle personalità illustri che emersero in quell’epoca, non  è stato proposto di certo per una forma subdola di “giustificazione” del carcere e del confino per i dissidenti, dell’olio di ricino, dei linciaggi, delle bastonate, degli omicidi di Matteotti, Leone Ginzburg, Nello e Carlo Rosselli,  ci mancherebbe, ma per evidenziare quella che, in qualunque altra dittatura, sarebbe stata una intollerabile anomalia da eradicare  in culla: la convivenza  (relativamente) “pacifica” tra soffocante censura e  autonomia creativa che si creò sotto i cieli plumbei dell’Italia fascista, una convivenza che la Russia staliniana concesse praticamente al solo autore del Maestro e Margherita (forse perché, come vuole la leggenda, il dittatore georgiano l’aveva in simpatia) e la Germania nazista a nessuno, avendo bollato ogni espressione artistica che non avesse una rigida finalità encomiastica  del Nazismo   con il marchio d’infamia di “arte degenerata”.

 

In conclusione

Ti inalberi perché riconosco al fascismo una sua complessità rispetto ad altri regimi dispotici del 900. Hai pienamente il diritto di farlo, ma ti ricordo sommessamente che fior di storici (Renzo De Felice su tutti, ma da ultimo anche i docenti dell'Università di Teramo ) immuni da simpatie per fez, labari e manganelli la pensano allo stesso modo.

Forse però il termine è sbagliato, in effetti: più che di complessità, si dovrebbe parlare da un lato di fascinazione, con riferimento a tutta una generazione di italiani, di qualsiasi ceto,  che ne vennero attratti ( la gran parte dei quali, tuttavia,  alla fine della “giostra” se ne allontanò per approdare su sponde opposte), nonché, come ho già accennato, di singolare indulgenza del regime, rispetto ad altre dittature, nei confronti di intellettuali, artisti e giornalisti, anche di opinioni politiche avverse, fatta eccezione per chi la propria avversità la esibiva in modo eccessivo ed evidente (che comunque, ricordiamo, fatte le debite, tragiche eccezioni, al massimo finiva al confino, il quale non era  certo una vacanza in un resort di lusso ma nemmeno il carcere o peggio: Hitler e Stalin adoperavano metodi più veloci e sbrigativi per stroncare la dissidenza, per blanda che fosse…)

A parte ciò, quello che del fascismo io credo attrasse tanti cittadini italiani, tra cui parecchi uomini e donne di cultura, fu proprio la sua carica eversiva (peraltro più sbandierata che praticata), tesa allo svecchiamento della società italiana e delle sue strutture attraverso lo smantellamento di quelle polverose e tarlate dello Stato liberale. Insomma, quasi una prosecuzione delle idee iconoclaste del futurismo, che tanto aveva sedotto (o scandalizzato, a seconda dei casi) l’Italia dei primi anni del 900.

E la violenza, mi chiederai?

L’Italia post unitaria era un Paese afflitto da un costante clima di violenza, di Stato e non, e il consenso di cui godette il fascismo -  dal 1925 e fino  al 1936-37 e alle leggi razziali, in specie tra i ceti medi e le classi abbienti – fu dovuto alla forzata pacificazione sociale che impose al Paese  insieme a quella che io chiamo la temporanea “democristianizzazione” del regime che Mussolini, dopo la burrasca dell’affaire Matteotti, impose invece al suo movimento, emarginandone gli elementi più violenti e difficili da controllare (che torneranno però alla ribalta con la repubblica di Salò) e adottando uno stile di governo che si potrebbe definire, con un ossimoro, di paternalismo autoritario.

Nessuna assoluzione, dunque, per una autocrazia repellente come tutte le autocrazie, solo uno sguardo più sereno e obiettivo sulla Storia, per provare a capire, in primis per noi stessi, perché un’intera Nazione – tra l’altro una Nazione “vecchia” di appena sessanta anni - in un certo momento della propria “esistenza” consegnò se stessa e la propria democrazia- per quanto altamente imperfetta, oligarchica e classista – nelle mani di un uomo solo e di un raggruppamento politico che esaltava la  brutalità, il sopruso e il soffocamento delle voci dissonanti, elevandoli  alla “dignità” di strumenti di perseguimento dell’azione di governo.

Perché tanti italiani, giovani e anziani, si dichiarano ancora fascisti

Bella domanda, che peraltro fa il paio con un’altra domanda, ossia sul perché altri italiani ripensano ancora con affetto alla Russia di Peppone (Iosif Stalin). La verità è che forse c’è nascosto nel cervello di tanti esseri umani un neurone primordiale che, di fronte alle inevitabili imperfezioni delle democrazie, risveglia il desiderio di clava e capi tribù. 

Battute a parte, le risposte al quesito, anche con riferimento al nostro “cortile” nazionale, possono essere parecchie.

Innanzitutto il fattore familiare: chi ha avuto nonni partigiani o  repubblichini,  a nord come a sud, in genere  ha avuto anche una madre o un padre con le stesse idee politiche, quasi sempre trasmigrate ai nipoti per proprietà transitiva. Quasi sempre ma non sempre, appunto: un mio zio, classe 1922, austero preside di scuola media di Olgiate Comasco, è rimasto fascista fino alla precoce fine dei suoi giorni, i figli sono stati invece due accaniti sessantottini che si sono accapigliati col genitore da mane a sera.

Ma, fatte le debite eccezioni, il passaggio del testimone politico all’interno delle famiglie italiane è stato ed è tuttora una catena di S. Antonio difficile da spezzare, perché entrano in gioco nodi affettivi e condizionamenti difficili da recidere.

Un altro elemento che determina i nostri orientamenti in politica, a parte clima e  vicende familiari, sono le esperienze dirette di ciascuno, il modo con cui ha vissuto il ventennio.  Tuo nonno paterno è stato comunista nella Libia fascista di Balbo, tua nonna paterna una nostalgica del Duce che però votava Dc...

Ma il livello culturale dell’una è stato inversamente proporzionale a quello dell’altro, così come l’ambiente in cui sono cresciuti e hanno vissuto la loro giovinezza negli anni del regime è stato ben diverso e ha inciso nella loro formazione: la Tripoli del governatore Balbo (soltanto Tripoli però, non il resto della Libia) è stata una realtà moderna, colta, vivace e cosmopolita, dove si incrociavano e si confrontavano etnie diverse (europei, arabi, ebrei); la Riposto degli anni 30 è stato un sonnacchioso comune di pescatori e artigiani ai piedi dell’Etna, dove il trasporto forzato dell’ubriaco dall’osteria alla porta di casa era la peggiore violenza squadrista in cui ci si poteva imbattere. Come poteva tua nonna, appena tredicenne, futura sarta sopraffina ma ragazzina con solo la quinta elementare, non piangere per l’esecuzione di un uomo che per lei, come per quasi tutta la generazione nata dopo il 1922, aveva incarnato l’idea stessa di Stato e di Italia e di cui sconosceva totalmente i lati oscuri e le turpitudini?

Sulla Sicilia e sul convinto consenso che a lungo i siciliani accordarono al regime (e che oggi continuano ad accordare ai suoi “eredi”), va poi aperta una finestra: la Sicilia, come peraltro tanta altra parte del Meridione, dall’avvento del vicereame spagnolo (1517) in poi non ha più avuto uno Stato, bensì tanti piccoli, rapaci e prepotenti Stati quanti erano le “voscenza s’abbenedica” che si spartivano poteri, privilegi e territorio. Gente che faceva il bello e il cattivo tempo con le vite agre dei contadini e delle loro poverissime famiglie grazie alle ribalderie e alle vessazioni di manigoldi (veri e propri mafiosi ante litteram) al loro servizio.

Mussolini, che di certo non poteva tollerare l’esistenza e la prosperità, in una parte del Paese, di realtà statuali alternative alla sua, mise a cuccia la malavita organizzata con le maniere forti (Prefetto Mori) [7]e, soprattutto nella parte orientale dell’Isola, smantellò parzialmente il latifondo distribuendo le terre ai contadini. I quali, grati, nel 1943 si sdebitarono con lui sparando addosso agli alleati insieme ai tedeschi (ne parla lo scrittore Pierangelo Buttafuoco nel romanzo Le uova del drago).

Ecco anche perché Catania è, da allora, città prevalentemente di fede fascista, così come Latina, dove i poverissimi contadini veneti, lombardi ed emiliani, spediti nel Lazio per bonificare le sterminate paludi pontine, alla fine dell’immane impresa si videro premiati con la proprietà di quei vasti e fertilissimi lotti di terreno bonificato che hanno arricchito la loro progenie.

C’è poi pure da aggiungere - oltre al fatto che l'isola fu risparmiata dalla spaventosa guerra civile che imperversò nel centro-nord della Penisola dal 43 in poi - che il siciliano medio è anarchico per natura  ed ha un concetto dello Stato che non oltrepassa lo zerbino di casa, ragion per cui accoglie sempre con sollievo l’arrivo di qualcuno che gli dica “si fa così e basta” e sempre, pertanto, ha avuto un debole per i “monarchi assoluti”, ossia per capi politici che mettevano a tacere con uno starnuto lo starnazzante pollaio dei governati. [8]

Infine un elemento preponderante su tutti gli altri nel determinare la tenace sopravvivenza, nel cuore di tanti connazionali, siciliani e non,  [9],  di un relitto della decenza e della Storia come il fascismo è certamente il troppo sangue  versato negli anni della guerra civile tra partigiani e militi di Salò.

Se sei discendente di uno dei tanti resistenti o parenti di resistenti o  semplici cittadini torturati e trucidati dai repubblichini, difficilmente potrai mai provare attrazione per movimenti o partiti di destra.

Allo stesso modo, se sei discendente, che so, di una Giuseppina Ghersi, una ragazzina di 14 anni torturata, violentata e uccisa solo per aver scritto un tema scolastico su Mussolini, o di una delle vittime delle stragi post 25 aprile commesse soprattutto da "cani sciolti" e da membri delle Brigate comuniste “Garibaldi” (Argelato, Schio, Codevigo, Costa d’Oneglia, Rovetta, Oderzo, Thiene, Cadibona ecc. [10]), difficilmente potrai mai votare  o simpatizzare per movimenti o partiti di sinistra.[11]

Lo vedi com’è complicata la Storia? Mai dare per indiscutibili le sue (talvolta apparenti) verità, cercare sempre la pagina nascosta del libro senza bisogno, per questo, di dover rinnegare o mettere in discussione le proprie opinioni e i propri ideali: solo gli stupidi e i fanatici cacciano sotto il tappeto le zone d’ombra delle “bandiere” ideologiche per cui fanno il tifo o gli eventuali profili positivi di quelle a loro avverse.

                                                                                       


[1] Va ricordato anche che il primo conflitto mondiale creò una spaccatura tra le classi meno abbienti :gli operai, in genere simpatizzanti del partito socialista, furono esentati dal servizio militare perché servivano nelle fabbriche per la produzione industriale mentre furono arruolati in massa i contadini, solitamente di orientamento politico conservatore (specie quelli meridionali), tranne che nella pianura padana Questa spaccatura si riflettè, nel dopoguerra, nella contrapposizione e negli scontri tra reduci, sensibili alle sirene fasciste, e operai.

[2]  Sia gli aderenti ai Fasci di combattimento che i semplici simpatizzanti possedevano, ben nascosti, veri e propri arsenali di armi, ordigni e munizioni sottratti all’esercito dopo la fine delle ostilità con l’Austria e la Germania.

[3] L’alleanza politico – militare tra Francia e Gran Bretagna

 

[4] E’ rimasto celebre il reciproco saluto al vetriolo tra Mussolini e D’Annunzio, entrambi reduci del primo conflitto mondiale: ”Saluto il fante alato “ (Mussolini al poeta, fante e poi pilota d’aerei da combattimento della neonata aviazione militare), “ E io saluto il lesto-fante “ (D’Annunzio a Mussolini, arruolato in guerra tra i bersaglieri).

[5] Cambellotti è l’autore di un bellissimo affresco, anche se di natura celebrativa, dipinto in una sala della Prefettura di Ragusa. Stupidamente celato dopo la guerra, è stato riportato alla luce alla fine degli anni 80 grazie all’ interessamento e alla tenacia di Leonardo Sciascia e Vittorio Sgarbi

 

[6] Interlandi, siciliano di Chiaramonte Gulfi, restò fino all’ultimo uomo di salda fede fascista e a guerra ultimata, mentre infuriavano le vendette sommarie, salvò la pelle presentandosi a casa dell’avvocato socialista Enzo Paroli, che lo nascose insieme alla moglie e al figlio.  Di lui Mughini racconta il singolare episodio di una sfuriata spaventosa, da “padrino siciliano”, che fece a due suoi giovani giornalisti antifascisti, finiti in carcere per avere uno dei due spernacchiato, in un luogo pubblico, un “Credere, obbedire, combattere e vincere” pronunciato alla radio. Ma Interlandi si adirò non per la pernacchia irriverente verso il regime politico di cui era un convinto sostenitore, bensì per il fatto che i due collaboratori non lo avevano chiamato per difenderli…

[7] Mafia che si riorganizzerà e ripartirà alla grande dopo l’arrivo degli alleati nell’isola, i quali è stranoto che per preparare l’Operazione Husky chiesero l’aiuto dei capi mafia italo-americani, i quali a loro volta risvegliarono i “colleghi” siciliani dal  loro forzato “sonno criogenico” …

[8] Anche qui le ragioni sono storiche: la Sicilia scommise molto sulla spedizione di Garibaldi (che, sbarcato a Marsala, trovò ad attenderlo 30 mila volontari siciliani) e sull’Unità d’Italia ma in seguito i governi sabaudi delusero le aspettative dei siciliani, non avendo capito niente dei problemi dell'Isola e dei suoi abitanti. E’ quindi normale che, in una situazione come questa, soprattutto per il siciliano poco istruito, meno dotato di strumenti culturali adeguati, alla fine lo Stato si sia ridotto a se stessi (il famoso individualismo siculo) e alla propria famiglia. In tutto ciò, l'Autonomia e i politici corrotti e mafiosi che ha prodotto - sia a livello regionale che comunale - hanno solo peggiorato le cose. Pertanto è triste dirlo ma, dopo la dominazione romana, tuttora ricordata in Sicilia come rispettosa dei diritti e rigorosa nel far rispettare i doveri (tant’è che ancora oggi il vocabolo “latino” in dialetto è sinonimo di strada o manufatto costruiti a regola d’arte o di persona corretta ma inflessibile), solo Mussolini, nel bene e nel male, ha fatto sentire la presenza dello Stato nell'Isola e i siciliani italiani come tutti gli altri.

[9] Principalmente all’estremo nord e al sud, parte d’Italia, quest’ultima, che non ha vissuto gli orrori del biennio 44-45

[10] Voglio ricordare qui il libro – denuncia di un grande giornalista socialista (ma ferocemente anti craxiano e anti berlusconiano) come il compianto Giampaolo Pansa, un uomo di sinistra rimasto tale fino alla morte e che nel suo libro Il sangue dei vinti ha avuto il coraggio (pagandone le conseguenze) di accendere i fari della pubblica opinione su queste sanguinose vendette post belliche (troppo spesso silenziate, sminuite o addirittura negate), sovente  accanitesi contro semplici parenti – uomini e donne - di repubblichini o contro innocui impiegati e impiegate della Repubblica di Salò, per tacere degli stupri di infermiere e ausiliarie di quell’esercito.

 

[11] Una leggenda metropolitana a cui si presta da sempre troppa fede è quella che riduce la lotta partigiana e la guerra di liberazione ad un grande derby tra fascisti e nazisti da una parte e comunisti dall’altra. E’ una leggenda alimentata nel tempo dall’organizzata propaganda del PCI ma che non riflette assolutamente la realtà dei fatti.

La Resistenza al nazi-fascismo la fecero un po’ tutti:  le Brigate Garibaldi,  filiazione militare del Partito Comunista Italiano; le Brigate Giustizia e Libertà, composte da aderenti al Partito d'Azione; le Brigate socialiste Matteotti; le Brigate Osoppo, cattoliche;  le formazioni dei cd. Azzurri, composte da militari badogliani, con a capo il generale Raffaele Cadorna (vi militò il grande scrittore piemontese Beppe Fenoglio); il gruppo Franchi di Edgardo Sogno, composto da liberali e monarchici; senza poi dimenticare i reparti regi dell’Esercito del Sud, che risalirono la Penisola, liberandola, insieme agli anglo-americani (anglo–americani, è bene ricordarlo, senza i quali purtroppo nessun esercito del Sud e nessuna brigata partigiana - NESSUNA -  avrebbe mai potuto cacciare dall’Italia le truppe tedesche) e di cui hanno fatto parte tra i tanti, come ufficiali, lo scrittore ed ex fascista Curzio Malaparte, a cui la Napoli liberata del 44 e la famosa eruzione del Vesuvio di quell’anno hanno ispirato lo splendido romanzo La pelle; il grande giornalista Indro Montanelli, anche lui ex fascista, e il nostro defunto ex Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi .

 

 

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francesco61dgl2 19 agosto

L'ARCHIVIO DEGLI ARTICOLI

 

21 maggio 2015

 

Il Frine dei poveri

Certe volte ricorda Frine, l’etera greca che si salvò da una condanna esponendo il seno nudo davanti agli occhi dei suoi accusatori. Matteo Renzi ne è una versione maschile sicuramente meno affascinante ma ugualmente furba: ogni qualvolta viene messo sotto accusa per le sue spregiudicate “riforme”, prova a cavarsela cacciando fuori il “seno”, ovvero la patente di premier-schiacciasassi che si è appiccicato addosso e che la UE ha provveduto subitamente a bollinare con il proprio marchio di qualità, garanzia per i mercati e per la finanza internazionale di docile accondiscendenza verso le politiche economiche rigoriste di Bruxelles. Tutto il contrario dei monelli Varoufakis e Tsipras, due incorreggibili discoli perennemente e inutilmente spediti dietro la lavagna con le orecchie d’asino. 

Lui ovviamente - il nostro caro Matteo Caterpillar - questa etichetta di servo sciocco degli odiati mandarini comunitari non accetterà mai di indossarla, perché sarebbe come ammettere di non essere altro che un Monti più giovane, ossia la versione 3.0 di uno dei più detestati primi ministri della storia repubblicana. No, lui è “altro”, è la novità assoluta del panorama politico nazionale e forse pure europeo, è la modernità che scardina il tarlato portone di legno della sinistra italiana e dilaga nel palazzo delle cariatidi, spalancando finestre, spolverando tappeti, arieggiando le stanze. Lui è odore di fresco e di pulito. La lavanda al potere. 

Odore di fresco: insomma. Malgrado le pose giovanilistiche e l’uso massivo di twitter, un certo olezzo di democrazia cristiana innegabilmente si sente dalle parti del renzismo. Certo non è la Dc dei dinosauri della prima repubblica e neppure quella riveduta e corretta di Monsignor Mastella da Ceppaloni, ma è innegabile che ci sia una irresistibile voglia di centro dietro i pensieri, le parole, le opere e le omissioni dell’attuale capo del governo. Ed è un centro, si badi bene, più vicino al movimento scoutistico parrocchiale che al classico liberalismo crociano o giolittiano.

Odore di pulito: qua non ci siamo proprio. A parte le confuse vicende paterne, mai chiarite completamente, l’azione politica di Matteo Renzi finora si è distinta per la totale indifferenza ai profili personali di collaboratori e alleati. Ne sono prova evidente le liste presentate dal PD per le elezioni in Campania, traboccanti di cosiddetti impresentabili nell’assoluto disinteresse della segreteria nazionale.

La verità è che il progetto renziano se ne impipa bellamente della questione morale. A Renzi importa raggiungere i suoi obiettivi senza guardar tanto per il sottile. Ieraticamente convinto di essere investito di una missione divina, per ottenere i risultati sperati deve agire in fretta (il suo famoso decisionismo, al cospetto del quale Craxi pare il Sor Tentenna) e senza badare più di tanto al pedigree dei compagni di cordata. Assomiglia un po’, in questo, allo stile adottato da Enrico Mattei nel reclutare i suoi collaboratori quando, chiamato alla guida dell’Eni, non esitò ad arruolare in squadra ingegneri compromessi col regime fascista, purché competenti. La differenza col grande tecnico della ricostruzione però sta proprio in questo: Mattei, ex partigiano, reclutava anche ex fascisti qualora “capaci e meritevoli”; nelle selezioni e negli arruolamenti renziani più che i trascorsi politici pare conti, invece, il casellario giudiziale dei neofiti: non dev’essere totalmente intonso. D’altronde per Renzi l’etica è il vecchio, così come sono il vecchio i sindacati, l’articolo 18, la scuola pubblica, il Parlamento. E’ tutto vecchio per lui: la moglie ha il terrore, quando torna a casa la sera, che emetta una fatwa tombale sul divano comprato due mesi prima o sulla lavatrice ancora in garanzia. 
A parte tuttavia certe figure barbine che sta collezionando per colpa del twitterismo compulsivo di cui è gravemente affetto (ex multis: l’acquisizione di Indesit da parte dell’americana Whirpool, un grande evento da duemila licenziamenti), i sondaggi paiono dargli ragione: all’elettore moderato, orbato da poco del berlusconismo, Renzi piace. Anche tanto. Per il leader del più grande partito della sinistra italiana è indubbiamente un risultato sensazionale: meglio di così, neppure Frine. E senza manco bisogno di farsi installare le tette.

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francesco61dgl2 08 agosto

Paolo Mieli e la scoperta dell’acqua calda

Terremoto un paio di sere fa a In Onda, la trasmissione condotta  quotidianamente, nella stagione estiva, da due giornalisti progressisti, Telese e Aprile, con ospiti generalmente progressisti e ogni tanto anche con un ospite – uno solo al massimo – non progressista,  messo lì per salvare le apparenze. Qualcuno dirà: praticamente un copia incolla dell’Otto e mezzo invernale di Lilli Gruber, ma senza l’arroganza  teutonica della Gruber. Non proprio, perché sarebbe ingiusto accostare una conduttrice come la Gruber, solita a togliere brutalmente la parola a chi non la pensa come lei (con la scusa dei tempi televisivi e l’eccezione di due ossi troppo duri come Travaglio e Cacciari) a due professionisti come Aprile e Telese, molto meno “caudillisti” nella conduzione del loro format estivo e nella gestione dei loro ospiti.

Terremoto, dicevamo. Perché? Perché nella serata incriminata Paolo Mieli, decano del giornalismo soporifero dell' altoborghese Corsera, aedo del liberalismo moderato e storico di tutto rispetto, ha osato dire l’inosabile: “perché le stragi dell’infausto ventennio del secolo scorso 70-80 si chiamano fasciste se commesse da terroristi di destra e non si chiamano però comuniste se commesse da terroristi di sinistra?”

Tuoni e fulmini senza pioggia ma seguiti da siccità, lebbra e invasione di cavallette:  tutti i presenti ad affannarsi subito coi distinguo, sciorinando il rosario dei bi e dei ba e a contestare garbatamente l’assunto di Mieli, il quale a sua volta, con  l’ aplomb britannico che lo contraddistingue da sempre, ha serenamente replicato a tutte le obiezioni, forte della sua ultra cinquantennale esperienza di giornalista e di una conoscenza della Storia pari a quella dei migliori esperti del settore.

Una premessa: da socialista liberale di antica data e  fan del riformismo “proudhoniano”,  chi scrive non ama il moderatismo di un centrista come Mieli e meno che mai il suo sforzarsi di voler apparire super partes quando è evidente a chiunque la sua personale predilezione  per  governi, partiti e uomini politici espressione dell’establishment finanziario ed industriale (qualsiasi  riferimento a Monti e Draghi è puramente casuale…), ma nell’occasione non può non riconoscere la sacrosanta verità di larga parte di quanto da lui sostenuto alla Sette.

Appare in proposito veramente superfluo, per chi conosce la cronaca di quegli anni, dover replicare che i comunisti, intesi come politici e simpatizzanti del PCI, all’epoca si schierarono risolutamente contro le BR e i loro metodi, ragion per cui le BR col PCI berlingueriano della svolta socialdemocratica, eurocomunista e antisovietica c’entravano come i cavoli a merenda. Gli affiliati alle BR, a Prima Linea e alle altre sigle eversive erano comunisti rivoluzionari di matrice trotskista rimasti agli anni 50 -come ha riconosciuto lucidamente anche Rossana Rossanda, illustre decana del comunismo italiano -rappresentanti  cioè di una idea della politica basata sulla rivoluzione permanente, l’abbattimento dello Stato borghese e l’instaurazione della dittatura del proletariato.

Tutto questo altro non è, in parole povere, che un tragico scimmiottare  il bolscevismo russo, erede a sua volta dei montagnardi francesi di Robespierre, ossia di una concezione del progressismo dove non c’è spazio per il pluralismo partitico, la dialettica parlamentare, l’alternanza al governo di un Paese e dove anzi la lotta politica non può prescindere dall’eliminazione fisica dell’avversario -  poichè “nemico del popolo” - e delle istituzioni parlamentari, con conseguente presa violenta del  potere.

E’ questa, in breve, la stessa idea sanguinaria di rivoluzione armata perseguita da alcuni nuclei resistenziali delle Brigate Garibaldi all’indomani del 25 aprile e messa in atto con le esecuzioni fratricide di Porzus (il massacro di 17 partigiani della Brigata Osoppo che si opponevano alle mire titine sul Friuli) e con le inutili stragi  post belliche di ausiliarie (spesso anche stuprate) e dipendenti civili del governo di Salò nonché di familiari e  amici di gerarchi e militi repubblichini (le 8.000 vittime del cd. triangolo della morte emiliano-romagnolo, gli eccidi  di Schio - 54 fucilati tra donne  e uomini - e Codevigo,136 morti, ecc.)

Una pagina buia della Resistenza al nazi-fascismo che ha rischiato di macchiare in parte uno dei momenti più gloriosi della Storia nazionale, anche perché ha dato la stura, nel corso degli anni, ad una lettura distorta di quegli eventi, ingigantiti oltre misura da chi inseguiva l’obiettivo di delegittimare agli occhi degli italiani tutta la guerra partigiana e chi l’aveva fatta.

Le BR   e gli altri gruppi terroristici di ispirazione marxista-leninista hanno ereditato in definitiva la stessa filosofia d’azione del bolscevismo della prima metà del XX secolo: l’avversario buono -  sia esso un politico, un burocrate, un intellettuale, un membro dell’FF.OO. o un semplice ed innocuo simpatizzante di parte avversa -  è l’avversario morto.

E’ la stessa norma di vita (anzi, di morte) seguita dai fascisti, cugini diversi ma identici nei fini perseguiti e nei metodi adoperati. Ma qui Mieli in tv è incappato, a mio avviso, in una grave inesattezza: a memoria, avendo  vissuto i cd. anni di piombo, non ricordo nette prese di posizione dei vertici dell’allora Movimento Sociale Italiano contro gli omicidi e le stragi commesse dai NAR o da altre sigle dell’eversione neofascista (forse anche perché vi erano coinvolti diversi suoi tesserati), mentre  ricordo molto bene le inflessibili prese di posizione e la lotta senza quartiere condotta dal PCI di Berlinguer e dai suoi iscritti (ricordiamo l’assassinio dell’operaio Guido Rossa) contro il cd. terrorismo rosso.

Pertanto non ci sarebbe nulla di scandaloso se cominciassimo a definire “comunisti” i crimini dell’estremismo rosso, come nulla di strano c’è da sempre a definire fascisti quelli compiuti dall’estremismo nero, ma sempre tenendo presente, per la serie “vedi le differenze”. che una cosa è stato il terrorismo comunista e ben altra cosa, da Berlinguer in poi, il partito comunista italiano .

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francesco61dgl2 06 agosto

L' ARCHIVIO DELLE RECENSIONI

 
Alzi la mano chi non ha mai sognato nella vita di essere scambiato per qualcun altro (o altra) molto più famoso (o famosa). Nessuno, probabilmente. Ci impedisce di essere immuni da simili, ingenue aspirazioni quell’ideale falò delle vanità che arde perennemente nei recessi neppure tanto profondi delle nostre anime.
Ma un conto è una vaga somiglianza, un altro una somiglianza perfetta o quasi. Così come un conto è la fugace soddisfazione dell’accostamento “ da strada” alla star di turno (specie se quest’ultima è persona particolarmente prestigiosa  o avvenente), un altro il decidere di sostituirsi al personaggio famoso e fare della somiglianza un mestiere.
E’ quel che accade allo scrittore fallito-traduttore di scrittori inglesi incomprensibili Bruno Bruni, protagonista dell’ultimo, esilarante romanzo di Giuseppe Culicchia, Essere Nanni Moretti.
Bruni trascina la sua esistenza di cinquantenne reduce da tre fallimenti letterari in quel di Torino, assillando il proprio agente letterario-amico d’infanzia Mordecai, stroncando ferocemente su internet i libri dell’odiatissimo scrittore di successo Giuseppe Culicchia (…), tentando vanamente di scrivere il Grande Romanzo Italiano e dividendo la propria vita agra con la trentaseienne Selvaggia, ballerina di lap-dance.
Quando Selvaggia, corpo da infarto e modi da camionista, perde il lavoro (unica fonte o quasi di sostentamento per la coppia), per i due si presenta l’angoscioso problema dello sbarco del lunario. Un problema che li assillava pure prima, viste le magre entrate, ma che con la loro totale sparizione diventa improvvisamente drammatico. 
Senonché, un bel giorno Bruni decide di farsi crescere la barba e  come d’incanto, almeno a giudizio dei passanti che lo incrociano per strada, si trasforma nello spocchioso regista di Caro Diario. Inizialmente non ci fa caso ma Selvaggia, perspicace come tutte le donne, intuisce i potenziali risvolti positivi della faccenda e, sfruttando anche le indiscusse doti di imitatore del compagno, lo induce ad insistere nella finzione  e  a farne anzi  un vero e proprio mezzo di sussistenza. Come? Imbastendo un colossale imbroglio ai danni dei sindaci dei piccoli centri turistici della Penisola, ossia contattandoli  - spacciandosi lui per il regista e lei per la sua segretaria – e preannunciandogli l’intenzione di soggiornare per qualche tempo nell’amena località di cui sono i primi cittadini,  poiché scelta come location del prossimo film  del Maestro.
Iniziano così un tour per l’Italia fatto di alberghi di lusso e pranzi luculliani a spese delle amministrazioni comunali in luoghi incantevoli che normalmente  sarebbero stati a loro del tutto preclusi. Unico neo l’onere, appena arrivati, di pranzare o cenare col sindaco e sciropparsi le tiritere di storia locale che puntualmente il malcapitato di turno non esita a sciorinare agli illustri ospiti, accompagnando il tutto con l’immancabile omaggio del volume illustrato di storia locale  taglia XXL. Fila tutto liscio come l’olio fino a quando…
Culicchia, classe 1965, balzato agli onori delle cronache letterarie alla fine degli anni novanta con “Tutti giù per terra” e autore già di una ventina di opere, è forse uno dei pochi scrittori italiani contemporanei che riesce ancora a suscitare sane risate nel lettore. Badate bene, non sorrisi ma autentiche e salutari risate. A far sorridere ci riescono ancora in tanti anche nel mondo dei narratori, ma chi sa far ridere di gusto, in Italia si conta ormai sulla punta delle dita. A occhio e croce e limitandoci agli scrittori, oltre a Culicchia viene in mente il solo Diego De Silva e, distanziato di qualche spanna,  Antonio Pascale. Dopo il nulla, a meno di non voler far rientrare nella categoria i barzellettieri alla Zelig in prestito  all’editoria per ragioni di marketing.
Scrittrici brave a far ridere ce ne stanno pure (hai voglia), ma trovo che la risata della donna sia sempre un po’ acida, rivendicativa. Della serie: “guardate che la protagonista del mio libro è sì una sfigata, ma una sfigata di valore, una sfigata incompresa.” Quella degli uomini è  invece la risata degli sfigati senza speranza, quelli incapaci di autostima fin dai tempi dell’asilo.  E Culicchia il suo sfigato senza speranza in Essere Nanni Moretti lo “impasta” così bene che alla fine vorremmo davvero che fosse lui il vero Nanni Moretti, invece che l’originale. Magari solo per il fatto che almeno il fake è simpatico, l’originale molto meno.
Infine, indovinato e  determinante per il successo dell'intreccio narrativo è il personaggio di Selvaggia, donna tanto attraente e volitiva quanto  coatta, capace di mettere a rischio ogni sera le coronarie dei  maschi bavosi che frequentano il locale dove si esibisce e nello stesso tempo di scaccolarsi in pubblico senza pudore oppure, con analoga assenza di remore, di far la scarpetta col dito nel piatto di un sindaco mentre costui parla  con il falso Moretti.
Eppure sbaglierebbe clamorosamente chi volesse ridurre l’ultima fatica di Culicchia  a puro intrattenimento letterario. La satira di costume, rimossa la patina di scanzonato divertimento che avvolge  il libro, c’è, eccome, ed è satira feroce, che non fa sconti a nessuno, in primis alle miserie di quel dorato mondo di boria e lustrini che è diventata l’industria della cultura. Un ambiente sempre più sclerotico, vuoto  e  narcisista, che vive di strategie pubblicitarie più che della qualità degli artisti che vi orbitano attorno e dello spessore delle loro opere. Un universo medusato dalla sua stessa incapacità di rinnovarsi e di scrollarsi di dosso decenni di libri scadenti spacciati per capolavori, che per lanciare finalmente Bruno Bruni nell’olimpo dei narratori (malgrado non abbia nulla da pubblicare) non trova di meglio che suggerire al suo editor di farlo passare per un soggetto affetto dalla sindrome di  Werner, la terribile malattia degenerativa che fa invecchiare prima del tempo chi ne è colpito. Si sa, negli anni dell’aria fritta spacciata per acqua di colonia, ciò che conta  ormai è la scatola e non più il suo contenuto e questo vale per persone e cose. E dunque mille volte meglio un finto Moretti che pare vero, piuttosto che i tanti veri autenticamente finti di cui siamo circondati ogni giorno.
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francesco61dgl2 più di un mese fa

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PREMESSA : il Trump del 2025 mi piace anche meno di quello del 2017 ma rimango dell'idea che i Trump sono figli delle Clinton.

 

Febbraio 2017

Prima di lui il diluvio

Si è insediato da appena due settimane e ha già collezionato un profluvio di articoli denigratori, una raffica di manifestazioni oceaniche di protesta, parecchie prese di posizione indignate del Gotha dell’intellettualità e dello spettacolo, innumerevoli esternazioni preoccupate di politici americani ed europei, enormi timori di tracimazioni caudilliste della più grande – e parecchio imperfetta – democrazia del pianeta. Parliamo ovviamente di Donald Trump, il nuovo baubau della politica internazionale, il salto indietro nel tempo che nessuno vorrebbe fare, l’uomo nero destinato a scalzare lo zar Putin e il sultano Erdogan dal piedistallo di capo di governo più temuto e detestato dell’Occidente.
Ma è davvero così? E’ davvero Trump l’uomo dell’Armageddon, il profeta del medioevo prossimo venturo? Chi scrive di certo non è un fan del nuovo inquilino della Casa Bianca, avendo tifato apertamente, durante la corsa per le ultime presidenziali americane, per il senatore Bernie Sanders, tanto amato dagli elettori democratici a stelle e strisce e altrettanto poco gradito dall’establishment del partito dell’asinello, che gli ha preferito la rassicurante continuità di interessi e di mire rappresentata da Hillary Clinton.
Ma è proprio questa la chiave del mistero, la ragione della sorprendente vittoria di Trump: Hillary Clinton. E’ Hillary e tutto ciò che incarna in termini di bonapartismo al femminile il segreto della “resistibile ascesa di Arturo Trump”, l’ingrediente che ha fatto lievitare oltre ogni ragionevole dubbio il consenso attorno al tycoon cotonato. Chi è causa del suo male pianga se stesso, verrebbe voglia di dire alla Zenobia di Washington. La sua appartenenza al patriziato politico ed economico statunitense e le fitte embricature con gli apparati militari e finanziari dovevano essere la mossa vincente, la garanzia di competenza e affidabilità che le avrebbe spalancato il portone della residenza più prestigiosa d’America. Si sono rivelate la sua iattura.

La catastrofe di questa donna estremamente volitiva e preparata ma anche fin troppo invischiata nelle più intime e spesso lerce commessure del potere yankee è dunque lei stessa. Lei, il suo sprezzante decisionismo, la sua plancia di comando imbottita di generali, lobbysti, banchieri, finanziamenti opachi e congiure di palazzo. Lei, la sua insana passione per cacciabombardieri e cannoniere, la sua olimpica indifferenza (tipica di certo progressismo al caviale) verso i diritti sociali che fa il paio con l’eccessiva attenzione per quelli civili. Oggi è la ricetta vincente della sinistra impotente, non solo in America: non potendo far nulla per migliorare il portafoglio delle classi meno abbienti, che almeno si garantisca loro il diritto a sposarsi, se gay, o a non subire discriminazioni se di diversa etnia. Giusto, giustissimo Hillary. Di più, sacrosanto. Ma due gay poveri prima di pensare a sposarsi pensano a come metter pace tra il pranzo e la cena. E un uomo di colore povero, per quante marce di Selma si potranno organizzare, in una società come quella americana correrà sempre il rischio di subire discriminazioni.
Il “sergente Hartman” Hillary tutto questo forse non riesce neppure immaginarlo. E’ qualcosa che sta fuori dal recinto umano e professionale in cui è cresciuta. Troppo complicato cercare di spiegare ad una come lei, venuta su a pane e globalizzazione, che all’operaio disoccupato di Detroit o all’allevatore del Wisconsin con la fattoria ipotecata importa poco se i contadini cinesi o indiani ora possono finalmente permettersi internet e lo smartphone. Soltanto una politica imbertonita dell'aria fritta come quella che ha calcato, in Europa e in America, il palcoscenico internazionale negli ultimi vent’anni ha potuto credere che l’apertura indiscriminata dei mercati, mito fondante di certa sinistra blairiana e neo kennediana troppo vicina a ciò che dovrebbe essere il suo opposto, non avrebbe lasciato  sul terreno centinaia di migliaia di morti e feriti proprio in quell’occidente opulento che si reputava ormai al sicuro dalle inedie dei secoli passati.

Qua è caduta Hillary, nella sua ignoranza del dolore altrui, in quell’inconsapevolezza, che fa tanto Upper Class della costa orientale, del disagio profondo (economico ma non solo) di moltissime famiglie americane per le quali la crisi non è mai passata oppure è stata sbrigativamente infilata sotto il tappeto dei troppi lavori da quattro soldi che hanno fatto la fortuna dell’era Obama, abbassando le stime della disoccupazione e facendo spellare le mani di tanti opinionisti convinti di aver trovato un nuovo Roosevelt.
Se è vero com’è vero che oggi, nell’Occidente del benessere che fu, la gente vota “contro”, negli U.S.A. il voto non poteva che indirizzarsi, una volta tramontata l’ipotesi Sanders, verso un outsider per eccellenza come Donald Trump, inviso persino a molti settori del suo stesso partito di riferimento. Così come, peraltro, in Francia rischia di convergere sulla Le Pen, in Germania sulla Petry e in Italia su Grillo e Salvini.
Trump non è il rimedio al male, ovviamente, è solo la personificazione della rabbia di milioni di disoccupati e sotto-occupati americani. Le sue ricette semplicistiche (“prima l’America”, i muri col Messico, le sanzioni alle aziende che delocalizzano ecc.) faranno sorridere o storcere il naso all’America dei party esclusivi e dei ristoranti alla moda, democratica o repubblicana che sia, ma danno una risposta rozza e concreta ai bisogni di una enorme massa di persone impoverite dalla crisi, dalla concorrenza cinese, da una immigrazione ispanica fuori controllo.

Vivaddio, votano pure loro. Qualcuno se l’era scordato.

 

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francesco61dgl2 più di un mese fa

Il secolare dilemma tra cultura e censura: il caso Gergiev

 

Chi pensava che dopo l’omicidio del filosofo Giovanni Gentile,  giustiziato da partigiani dei G.A.P. nel  1944 per la sua “consustanzialità” col fascismo - di cui è stato un importante teorico ed esponente di governo -   fosse  ormai chiara a tutti nel nostro Paese la distinzione, quando si giudicano illustri esponenti della cultura vicini a regimi politici autocratici, dell’intellettuale dal simpatizzante, si sarà dovuto ricredere dopo le virulente e sdegnate prese di posizione contro l’ invito fatto dal Presidente della Campania De Luca al Direttore d’orchestra Gergiev , grande musicista ma anche grande amico di Vladimir Putin.

Gentile pagò con la vita le sue aderenze incondizionate alle scellerate politiche mussoliniane ma chi lo assassinò avrebbe dovuto mettere sul piatto della bilancia, prima di privare l’Italia di un tale pensatore di altissimo livello, le sue responsabilità nell’appoggio al regime fascista e i suoi meriti.   

Questi ultimi furono obiettivamente enormi: padre del neoidealismo italiano, cofondatore dell’Enciclopedia Treccani, Presidente dell’Accademia dei Lincei, autore di numerosi trattati e ispiratore di una importante riforma della scuola che porta il suo nome e che ancor oggi da molti - compresi intellettuali di area marxista come Diego Fusaro - viene ritenuta superiore a quelle succedutesi nell’Italia del dopoguerra, Giovanni Gentile fu l’ultima, grande espressione della scuola filosofica italiana, che dopo di lui non ha prodotto personalità della medesima statura intellettuale.

Prova ne sia che, consapevole di ciò, il CLN all’epoca, con l’eccezione dei comunisti, condannò senza mezzi termini il suo assassinio, nella convinzione che i G.A.P. della Toscana, uccidendo il filosofo siciliano, avessero privato la Nazione di un personaggio dalle virtù culturali infinitamente superiori alle sue mende ideologiche.

Le medesime dinamiche si stanno replicando col maestro Gergiev (per fortuna senza pallottole): il musicista non ha ucciso nessuno, non ha torturato o bombardato nessuno e  nessuno ha spedito nelle carceri e nei gulag del dittatore russo, eppure dovremmo privarci del piacere di ascoltare, nella splendida cornice della Reggia di Caserta, una orchestra diretta da un gigante della musica classica come lui perché lo berciano le Picierno e i suoi ascari.

Ragionando come costoro ragionano, a questo punto perché non ostracizzare anche gli scritti e la memoria stessa di un colosso della drammaturgia come Luigi Pirandello, grande adoratore del fascismo e di Mussolini? Pirandello fu un convinto assertore della dittatura fascista e non nutrì mai il  benché minimo  dubbio sulle bontà delle politiche e delle scelte del Duce. Per averne conferma basta consultare le biografie dedicategli dagli studiosi nel corso degli anni, prime tra tutte quelle di due suoi conterranei: “Il gioco delle parti” di Matteo Collura e la "Biografia del figlio cambiato" di  Andrea Camilleri.

Pirandello a parte, la Storia poi è piena di poeti, scrittori, filosofi e artisti amici e consiglieri di dittatori, tanto da poter ritenere a ragione che se si volessero condannare all'oblio i loro nomi, enciclopedie, monografie e  manuali scolastici subirebbero una drastica cura dimagrante. 

Una democrazia matura separa le  opinioni e le simpatie politiche dell’intellighentia dal giudizio sulla statura e sulle opere dei suoi protagonisti. Ma nel Belpaese è lezione che dobbiamo ancora mandare a memoria...

 

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francesco61dgl2 più di un mese fa

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E se i vangeli altro non fossero che l’instrumenta regni adoperato dall’impero romano per ammansire le turbolente popolazioni della Palestina? Domanda stuzzicante quanto blasfema, almeno  per un credente. Eppure  Furio Bressanutti su un presupposto così scabroso ci ha costruito una storia intrigante come un giallo e affascinante come un’indagine storiografica, Il manoscritto di Tolosa. Un libro sfalsato innanzitutto su due livelli- quello del narratore e quello dei due protagonisti principali - perfettamente bilanciati nell’architettura del romanzo.
Il narratore  è un bibliotecario vaticano che trova, nel corso del suo lavoro, un fascicolo zeppo di lettere e documenti risalente alla fine degli anni settanta. Il suo primo istinto è quello di restituirlo definitivamente all’oblio dello scaffale, ritenendolo di scarsa importanza, ma la lettura distratta di una nota scritta da un cardinale italiano nel lontano 1959 accende la sua curiosità. In quella nota il cardinale accenna ad un incontro con un suo collega tedesco che gli ha lasciato una pessima impressione.
Quasi vent’anni dopo, alla vigilia della morte del Papa in carica, gravemente ammalato,  i due cardinali si ritroveranno su fronti opposti nella lotta per la successione e per raggiungere il loro scopo non esiteranno a servirsi di un giovane ed inconsapevole studioso di sacre scritture da poco giunto in Vaticano per completare delle ricerche sul vangelo apocrifo di Tommaso.
Julius Neinei, questo il nome dello studioso, verrà così coinvolto sempre più nelle trame diaboliche ordite soprattutto dal cardinale italiano, degno erede dei pontefici e dei porporati rinascimentali, di cui replica, grazie al fisico corpulento, anche fattezze solenni e movenze aggraziate. L’altro, il tedesco, è il suo esatto opposto, persino fisicamente: tanto è pingue e composto il primo, quanto è magro e ieratico il secondo, viso smunto e occhi febbricitanti; tanto è imponente e calmo il primo, che ci si immagina con un bel faccione alla Leone X , quanto è irrequieto e irascibile il secondo, una sorta di moderno Savonarola che vede il peccato e il peccatore dietro ogni porta e ogni finestra.
In questo gioco al massacro,  spietato e al contempo incruento come solo i conflitti che si accendono dentro le ovattate stanze pontificie sanno essere, a Neinei viene volutamente offerta la visione di un documento rivoluzionario, che testimonierebbe di un’apparizione della Madonna nell’Occitania  catara del 1273.
Il Manoscritto è un romanzo dai toni cupi, claustrofobici, che immerge mirabilmente il lettore nell’atmosfera silenziosa e rarefatta dei palazzi vaticani. Palazzi enormi, riccamente decorati e affrescati, e sale di studio e lettura dalle pareti colme fino al soffitto di rarità bibliografiche di inestimabile valore. Stanze e corridoi dove un silenzio assoluto, talvolta angosciante, è rotto soltanto dal raro scalpiccio dei passi frettolosi di funzionari e sacerdoti indaffarati o da quelli lenti, gravi, cadenzati di presuli e dignitari appartenenti ai piani nobili della gerarchia vaticana.
Prigioniero di questo universo privilegiato di cose e persone che pare fluttuare in una dimensione spazio-temporale esterna ed estranea  a quella dei comuni mortali, Neinei precipita sempre più nello smarrimento provocatogli da rivelazioni  che per lui, cattolico devoto,equivalgono alla perdita di tutte le certezze.
Ma forse il pregio maggiore del Manoscritto di Tolosa non sta né nella trama, pur originalissima e  ottimamente strutturata, né nell’accurata ed impietosa radiografia psicologica dei personaggi, quanto nell’impressione che i rimandi storici alla vicenda di fantasia possano contenere alcuni nuclei di verità. Bressanutti , tra l’altro, è un esperto della materia e troppo dettagliate sono le fonti che cita e gli episodi che riporta per credere che il tutto sia frutto della sua fervida immaginazione. Conviene però  pensare che egli abbia  tratto da materiale debitamente documentato conclusioni affatto prive di serio conforto scientifico, perché se così non fosse  lo sconcerto di Neinei   potrebbe diventare quello di noi tutti, a prescindere dalla nostra appartenenza o meno alla fede cristiana.
 
 
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francesco61dgl2 più di un mese fa

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Gennaio 2017

Ci voleva un comunista

“Adda veni’ baffone” era l’invocazione con la quale il proletariato italiano degli anni cinquanta impetrava la realizzazione di una tra le più fosche (per qualcun altro) e note profezie attribuite a Don Bosco: l’arrivo in Italia dei cosacchi di Stalin, che avrebbero abbeverato i propri cavalli alle fontane di Roma. Ignari dei milioni di morti che il “Piccolo padre” sovietico teneva sulla coscienza, operai e contadini di una Penisola sulla cui pelle bruciavano ancora le ferite e le miserie della guerra, all’epoca ne auspicarono, infatti, la presa del potere perché ritenuta l’ unico lenitivo alle loro disagiate condizioni di vita.

Baffone non è mai arrivato (per fortuna…) e il PCI ha conosciuto l’ebbrezza del potere (quello vero) soltanto nel momento in cui, dopo la caduta dell’URSS, l’allora segretario Achille Occhetto ne decretò la morte e la contestuale resurrezione in salsa socialdemocratica. Ma un comunista è un comunista e rimane tale, nel bene e nel male, anche dopo aver saccheggiato tutto il variegato guardaroba del trasformismo politico. E’ proprio delle ideologie forti marchiare a fuoco (idealmente) i propri adepti, i quali anche se nel tempo mutano opinioni, ammorbidendole o contaminandole, mantengono quasi sempre al fondo un nucleo inscalfibile di orientamenti e visioni della vita su cui nessun cambio di casacca potrà mai incidere.

Confesso che è stato questo il primo pensiero che mi è venuto in mente nel momento in cui, dopo il cambio della guardia al Viminale, il democristiano Alfano ha lasciato il posto al comunista Minniti (uso volutamente questi due disusati aggettivi) e quest’ultimo ha esordito sulla panchina scottante degli Interni ricordandosi e ricordando a tutti che la sicurezza non ha colore politico e che la legge italiana (abito che non si può indossare solo quando ci fa comodo) distingue tra profughi (beneficiari del diritto d’asilo) e migranti economici, i quali ultimi vanno soccorsi (se necessario) e poi rimandati indietro.
Parole sacrosante e abbiamo dovuto aspettare un comunista – dopo anni di ubriacature immigrazioniste senzaseesenzama e una copiosa produzione normativa tesa a non far fare un giorno di detenzione a chi delinque – per sentircelo dire. Ma questo è accaduto perché Minniti è un comunista – comunista, seppur candeggiato in acque laburiste, non un anarco-comunista e tanto meno un catto-comunista, ossia due “categorie dello spirito” che negli ultimi anni hanno fagocitato la gauche italiana occupando tutti i piani dell’edificio progressista, sia a livello di uomini politici che di giornalisti, intellettuali o semplici attivisti. Oggi la sinistra italiana - da quella cd. moderata a quella cd. Antagonista - è una sinistra che sa poco o nulla di Marx e tutto di Don Milani e Papa Francesco. E questo non è normale: Don Milani, la cui grandezza – sia chiaro – nessuno qui vuol mettere in discussione, è pur sempre una emanazione del mondo ecclesiale nella sua più ampia accezione, così come Papa Francesco; Marx,  Proudhon e gli altri padri nobili del comunismo e del socialismo internazionali sono un’altra cosa.
Tralasciando il confronto con l’anarchismo libertario, dove le differenze in teoria dovrebbero essere siderali, i punti di contatto, pur numerosi, tra la dottrina sociale della Chiesa o il pauperismo cristiano in genere e il movimento dei lavoratori non sono obiettivamente sufficienti a giustificare la fusione così profonda avvenuta in questi anni tra due realtà che in alcuni settori – come appunto la sicurezza o l’accoglienza – dovevano restare rigorosamente distanti, diverse essendo le responsabilità dell’una (religiose) e dell’altra (politiche) e di conseguenza anche i fini perseguiti: per la Chiesa, un perdonismo (per chi si macchia di reati) che non ammette contropartite o una mistica dell’ ospitalità (verso il pellegrino) che – necessariamente, dal punto di vista della fede - prescinde dalle ragioni (economiche o meno) del peregrinare dell’ospite; per la politica di sinistra, nel primo caso l’emenda inscindibilmente legata al recupero (differenza, questa, sostanziale tra le due declinazioni della sicurezza, quella di destra e quella di sinistra) e nel secondo caso una accoglienza che inevitabilmente non può essere disgiunta dalla sua compatibilità con i numeri, le motivazioni, i comportamenti, la volontà di integrarsi di chi approda nel nostro Paese.

E’ una precisa responsabilità dei gruppi di protesta giovanili post –sessantottini aver innestato nel corpo dei partiti dei lavoratori segmenti di DNA, se non proprio incompatibili, quanto meno in astratto difficilmente conciliabili con la loro natura. Tant’è che il PCI di quegli anni mantenne sempre un atteggiamento profondamente ostile nei loro confronti [1] , così come nei confronti dei piccoli partiti sorti alla sua sinistra, più permeabili agli apporti della cultura cattolica e di quella liberale. Ma dopo il 1989, proprio gli esponenti di quei gruppi e di quei partiti sostituirono lentamente la classe dirigente dell’ormai ex Pci, portando dentro quel partito e dentro la sinistra in genere anche un universo valoriale leggermente diverso, su certe tematiche, da quello nativo delle forze politiche in questione. Il “matrimonio” con i cattolici delle correnti di sinistra della Dc ha fatto il resto.

Risale pertanto a tale fase delle vicende politiche nazionali e internazionali quella deriva neoliberista della socialdemocrazia europea che il PD in Italia ora cerca di celare dietro lo scaltro paravento di un rinnovato vigore sul fronte delle unioni civili (a rigore, un cavallo di battaglia del liberalismo) e di una disponibilità illimitata all’accoglienza dei migranti africani (a rigore, un cavallo di battaglia del volontariato cattolico), in ciò (ma solo in ciò) in pieno accordo con i partiti alla sua sinistra, ormai avvinti come l’edera in un connubio tanto entusiasta quanto poco coerente con radicali e conferenza episcopale.
Ma certe mutazioni genetiche come quelle sfociate, in Italia, con l’approvazione del job act e lo svuotamento dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (per non parlare della claque appassionata di Confindustria e potentati economico-finanziari dietro ogni peto del governo Renzi), in tandem con gli inevitabili conflitti tra poveri accesi da una gestione esclusivamente emotiva dei fenomeni migratori, sostanzialmente focalizzata solo sulla fase del soccorso umanitario, a lungo andare rischiano di provocare in molte realtà geografiche piccole e grandi del nostro Paese un pericoloso travaso di voti dalla sinistra (radicale o riformista che sia) alla destra lepenista di Salvini, che non a caso sfoggia da tempo opinioni “socialiste” in tema di lavoro e di diritti dei lavoratori (gli attacchi alla legge Fornero, l’adesione ai referendum della CGIL per l’abolizione del job act ecc.), abbinate alla scoperta di una inedita – per la Lega – vocazione nazionale e al sempiterno refrain contro stranieri e malvivenza spicciola (ladri, rapinatori, piccoli spacciatori ecc.).
Infatti, contrariamente a tanti soloni della sinistra culturale e ad altrettanti tromboni di quella politica usi a trascorrere le loro giornate beatamente sdraiati sulle nuvole, Salvini ha capito che una larga fetta di elettori di sinistra desidera con uguale intensità il ripristino dell’art. 18, il contenimento dell’immigrazione (o quanto meno un approccio oculato e attento al problema che tenga conto di molteplici fattori, ad iniziare dalla conoscenza della personalità e delle intenzioni di chi entra nel nostro Paese) e un deciso cambiamento di rotta sul fronte della lotta al degrado, all’ inciviltà e ai reati di cd. allarme sociale come i furti in appartamento; fenomeno questo che ha raggiunto negli ultimi anni dimensioni davvero preoccupanti, con borghi di poche centinaia di anime fino a poco tempo addietro immuni da qualsiasi tipo di criminalità e oggi invece letteralmente assediati da bande organizzate di malfattori (italiani e stranieri) che “visitano” puntualmente e talvolta ripetutamente le loro case, certi della sostanziale impunità delle proprie condotte, visto che per i giudici ripulire un appartamento e far precipitare nel dramma famiglie che magari con grande fatica l’avevano arredato, non è un illecito penale meritevole d’attenzione e di risposte severe da parte dell’ordinamento.
Le famiglie italiane però la pensano diversamente, così come diversamente la pensano su centri d’accoglienza stracolmi collocati in paesi piccoli e piccolissimi e sulle conseguenze poco gradevoli in termini di decoro urbano e qualità della vita che un afflusso indiscriminato di stranieri nullatenenti (inevitabilmente disposti, tra l’altro, a una spietata concorrenza salariale con gli anelli più deboli del mondo del lavoro, per il sollazzo del padronato) può determinare e sta determinando in parecchie città italiane, piccole o grandi che siano. Salvini tutto questo lo sa bene e ci marcia, conscio che l’insistere ossessivamente su questi temi potrebbe procurargli in futuro lusinghieri risultati in termini di consenso elettorale. Non ingannino, da questo punto di vista, i sondaggi che danno la Lega inchiodata al 12- 13 per cento: chi risponde ai sondaggi spesso si vergogna di ammettere che condivide le idee di politici considerati “impresentabili” come il leader leghista. La vicenda di Trump insegna.
La sinistra invece finora si è stoltamente baloccata sulla questione aggrappandosi a quattro narrazioni, per usare un linguaggio caro a Niki Vendola: quella dell’immigrato che ci paga le pensioni e innalza il PIL, immemore che questo genere di immigrato è quello munito di un regolare permesso di soggiorno e il cui ingresso in Italia è da anni ormai impedito dall’emergenza dei barconi; quella dell’accoglienza diffusa, ossia della distribuzione di piccoli nuclei di immigrati in ciascuno degli ottomila comuni della Penisola, immemore che senza una decisa diminuzione degli sbarchi la percentuale di immigrati per comune, oggi fissata in 2,5 unità ogni 1.000 abitanti, nel giro di poco tempo schizzerebbe alle stelle; quella – sublime – della “paura percepita” e sparsa a piene mani tra la popolazione dalla malafede di certi organi di informazione, immemore che basterebbe scendere per una volta dalla ionosfera e interpellare direttamente in strada i cittadini per rendersi conto che di percepito in giro c’è ben poco e, infine, il sempiterno mantra: “è la povertà la madre delle ruberie”, affermazione apodittica che collide clamorosamente con organizzazione, professionalità, personalità, precedenti e tenore di vita di chi oggi è dedito a tempo pieno, ad esempio, al disonesto mestiere di svaligiare le case altrui.

L’esito del referendum, insieme alla sostituzione dell’inquilino del Viminale e alle prese di posizione del commissario europeo all’immigrazione (secondo il quale l’80 per cento dei migranti che arrivano in Italia non sono profughi: una roba che sa tanto di scoperta dell’acqua calda…) paiono tuttavia il segnale di una svolta, anche se non si sa quanto duratura ed efficace. La verità – comunisti o non comunisti- è che forse i vertici del partito democratico a trazione renziana hanno preso atto del peso avuto, nell’esito del disastroso (per il PD) referendum di dicembre, proprio dall’insofferenza di parecchi elettori progressisti verso la filosofia adottata dall’ex premier, un po’ per mentalità (boy scout e cattolico per giunta) e un po’ per calcolo (accoglienza in cambio di condiscendenza comunitaria sui conti italiani), nell’affrontare certe questioni particolarmente scottanti. Da qui il cambio di passo di Minniti : contatti coi Paesi di provenienza per facilitare il rimpatrio degli irregolari, ripristino e aumento dei CIE, con buona pace degli strepiti della sinistra metafisica.

Chi come il sottoscritto, da sinistra e per la salvaguardia della sinistra stessa, questo cambio di passo lo auspicava da tempo non può che esserne soddisfatto, quantunque scettico sulla reale capacità dell’esecutivo di portare a termine la missione, soprattutto per quel che concerne la concreta utilità dei CIE, istituzione che in passato si è sovente rivelata del tutto inutile: nei CIE la permanenza è attualmente limitata per legge, dal punto di vista dei soggetti, a una quota minoritaria di clandestini (i destinatari di espulsioni con accompagnamento coatto alla frontiera) e, dal punto di vista dei tempi, ad appena 3 mesi, alla scadenza dei quali se non s’è individuato il vettore, reperito i documenti o stretto accordi con il Paese d’origine del migrante, allo straniero viene consegnato un foglio di via accompagnato dalla calda raccomandazione di lasciare l’Italia entro tot giorni.  Il che equivale a dire “scusate, abbiamo scherzato”.

[1] A onor del vero, l’avversione del vecchio PCI nei confronti del   movimento  studentesco scaturì più che altro dall’esistenza, in seno ad esso, di un vivace dibattito interno che- quantunque spesso svilito da sloganismo, velleitarismo e furore ideologico- rappresentava comunque, per il monolitico partito di  Gramsci e Togliatti, una inammissibile ed eretica deviazione   dalla regola aurea del cd. centralismo democratico.

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francesco61dgl2 più di un mese fa

L' ARCHIVIO DELLE RECENSIONI

 

 

Ritrovare in libreria un autore come Andrea Vitali è , per chi scrive, come ritrovare un vecchio amore. E come in ogni vecchio amore che si rispetti, nei libri di Vitali l’innamorato ritrova pregi e difetti di cui aveva smarrito la memoria. Nei vecchi amori editoriali, come in quelli in carne ed ossa, non si cerca l’eccitazione dell’ignoto, il viaggio nella foresta vergine inesplorata, lo sconvolgimento ormonale per la novità che si annuncia gravida di piacevoli (o spiacevoli) sorprese. Si sa già quello che ci aspetta e questa certezza a volte può essere parecchio rassicurante, perché ognuno di noi, nella vita come nella letteratura, necessita in egual modo, a seconda del momento, del riparo che offrono le certezze e del sapore d’avventura che solo  le frontiere sconosciute possono dare.
Non sfugge ovviamente alla regola del “vecchio amore” neppure l’ultima “fatica” letteraria di Vitali, La leggenda del morto contento, un tuffo nella Bellano asburgica della prima metà dell’ottocento per un’ operazione che olezza intensamente, però,  di camillerismo spinto.
E qui già s’intravedono i primi difetti del “vecchio amore”, peraltro noti. Come Camilleri, anche Vitali scrive troppo e come Camilleri, il suo dioscuro meridionale, sembra vittima delle leggi impietose della grande editoria che vincola gli autori più redditizi con contratti-capestro,  costringendoli a sfornare un certo numero di libri all’anno a prescindere  dallo stato di salute della loro creatività. Insomma, lungo il confine sottile che corre tra uno scrittore prolifico (es.Simenon) e uno scrittore “schiavizzato”, si ha ormai la spiacevole sensazione che per Vitali e Camilleri si abbia a che fare con la seconda delle opzioni.
Ma se Camilleri finora se l’è cavata, più o meno,  diversificando generi e fondali d’ambientazione dei suoi ultimi lavori (con esiti comunque ugualmente discutibili, soprattutto se paragonati alla freschezza e alla intensità di libri  come La forma dell’acqua ),  il povero Vitali , saccheggiate  tutte le chiacchere di comari e le fole di paese del ventennio fascista e del primo dopoguerra, stavolta dà l’impressione di essersi dovuto arrampicare sugli specchi per accontentare i suoi aguzzini, partorendo una storia più soporifera e noiosa della predica di un pastore metodista.
Tutto ruota attorno ad un viaggio in barca, a caccia di bagordi nei borghi viciniori, compiuto da due  rampolli di famiglie benestanti in una torrida giornata di fine luglio del 1843. Viaggio finito tragicamente, perché nel bel mezzo della traversata si scatena, come talvolta capita sui grandi laghi lombardi, una spaventosa  ed imprevista tempesta di vento che rovescia la barca, uccide il figlio unico dell’uomo più ricco di Bellano e disperde il suo compagno, figlio di un ingegnere svizzero e ospite di un’altra famiglia altoborghese del posto.
Una tragedia come tante, quindi, a cui però ha assistito il sarto del paese, un povero cristo che, per sfuggire alle grinfie di una moglie bisbetica, all’ora di pranzo ogni tanto si rifugia nella solitudine del molo. Il sarto, tra l’altro, si diletta  di meteorologia e ha intuito, provando inutilmente ad avvisare alla partenza i due scavezzacollo, il prossimo mutare violento del tempo.
Ad un canovaccio che , come si può già intuire da queste scarne indicazioni, di suo non è dei più appetitosi , Vitali aggiunge anche una certa stanchezza che traspare evidente nel corso della lettura, non fosse altro per la fretta con cui liquida l’unica parte del romanzo che avrebbe potuto risollevarlo e che non stiamo qua a dire per non privare il lettore della sorpresa. Tutto il resto è effervescente e sapida descrizione dei soliti personaggi di paese-poveri e ricchi, umili e potenti- e dei loro vizi e vizietti. Qui Vitali dà, come al solito, il meglio di sé, dipingendo il consueto affresco collettivo di miserie e nobiltà che ricorda certi quadri del rinascimento fiammingo, impietosi nel disvelare il grottesco e il ridicolo dell’animo umano. Ma si avverte tangibilmente la mancanza di qualcosa, quel qualcosa che ha reso unici, presso gli affezionati lettori, libri come La figlia del Podestà, Olive comprese e Una finestra vistalago: manca il divertimento dello scrittore, quel piacere di raccontare che affiorava  nitido in altri romanzi e che sapeva trasformare la banalità in epica, la vita quotidiana di un modesto villaggio lacustre in un caleidoscopio esilarante di fatti e personaggi  dove la risata giunge  puntuale ad ogni paragrafo, spontanea e impossibile da trattenere.
Vitali ha un merito che nemmeno il più accanito  dei detrattori (e lui ne ha tanti tra i soloni della critica ufficiale)  potrà mai negargli: aver reso la sua Bellano un ombelico del mondo, un luogo marginalizzato dalla Storia che riesce ugualmente a far parlare di sé coi suoi prevosti, i suoi sindaci, i suoi marescialli, i suoi nullafacenti da osteria, le sue pettegole e micidiali beghine. Ma nella Leggenda si percepisce chiaramente come il grande burattinaio di queste originalissime maschere della commedia umana  stavolta nello spettacolo ci abbia messo solo il mestiere, lasciando mestamente a casa la passione.
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