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Who Pod?

Who Pod?
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La prima cosa bella di venerdì 13 maggio 2022 è che nella sfida tra l'uomo e l'aggeggio, l'uomo a imparato a prevalere alla distanza. Prendete l'I Pod, per esempio. È durato ventun anni.

Mio nonno ha avuto la radio: lui se n'è andato e lei c'è ancora. Mio padre la televisione e si sfidano ogni sera da ottant'anni. Nella mia vita ho accolto e sepolto molti congegni. Ho fatto parte del "Popolo dei fax" e della "Generazione I Pod".

Vidi nel metro di Parigi uno con la scatoletta bianca e le cuffiette: doveva essere parente di Steve Jobs. Mi sembrò una meraviglia, la mia musica in tasca. L'avevo ascoltata con il giradischi, il mangiadischi, il walkman, l'autoradio, i dischi, le cassette, i cd, i file Mp3.

 

Avrei visto i blackberry nascere e scomparire. Il phone diventare smart. Il pc spezzarsi in due e diventare I Pad (se vuoi la tastiera, a parte). Meteore da polso, da mettere davanti agli occhi, prototipi che mi raccontano in segreto, mentre mangiamo in ristoranti senza finestre. Ci vorrebbe, come fecero per i gusti dei gelati Ben & Jerry, un cimitero per oggetti finiti. Non smarriti, finiti.

È stato bello, è stato utile, ma soprattutto, eh già: noi siamo ancora qua. 

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(Leggo)

«Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» Gv 14,1-6.

 

I popoli chiamano la loro terra “patria”. Ciò sottintende una protezione, un conforto ed implica amore. Ci sentiremmo a casa nostra nella casa del Padre, ci sentiremmo a nostro agio, rassicurati. Questa è l’opera fantastica dell’amore: trasformare quattro mura anonime nella propria casa e un servo in un figlio.

(Prego)

O Padre, che sei la meta finale del nostro cammino, Fa' che seguiamo la via del tuo Figlio che ci guida verso di te, rivelandoci la pienezza di vita nella tua casa.

(Agisco)

Essere segno e presenza di Cristo per chi soffre.

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Tonino Abbattista

 
 
 

A vent’anni, stagnino, maestro di scuola elementare a ventitré.

Come un’ape attratta dall’irresistibile profumo di fiori di campo, ti precipiti dalla città di De Nittis a San Ferdinando dove una corolla di persone speciali, entra nel cuore del volume “Nu picche dolce e….n’àte pìcche amàire” di Antonio Abbattista e ne illumina anfratti, pianure e rilievi.

Approdi trafelato all’ auditorium dell’Istituto “Michele dell’Aquila”. Ahimè! Due fanciulle del servizio d’ordine ti bloccano l’accesso per il certificato verde, riottoso alla scansione de lettore ottico. Insisti, interpellata la coordinatrice… perplessità, poi, via libera. Riprendi a respirare.

Cantiere già aperto, luci soffuse, operatori al lavoro. Rosario Lovecchio, direttore della biblioteca parrocchiale “Don Milani, microfono alla bocca. Neanche una mosca vola. Il pubblico, raccolto, compiaciuto, ascolta in silenzio. Così, In punta di piedi raggiungi la prima fila e ti accomodi in un’accogliente poltroncina turchese.

Dietro il maestoso tavolo, alla plancia di comando…

…la poetessa, Tina Ferreri Tiberio, coordinatrice degli interventi. Maestosa nella sua semplicità ed umiltà, un tempo docente di storia e filosofia al Liceo scientifico, autrice della bella raccolta “I sentieri del vento”, di cui ricordi in particolare “Ogni volta mi perdo/ quando guardo/ il Tuo infinito ed eterno/ondeggiare. / Sussurri al vento/ e nell’indefinito abbraccio/ dell’Universo/ rinfrangi le onde e…/ attraversi il tempo”

….. Don Mimmo Marone, un’icona, un faro che illumina coscienze. Un lievito, genera alveoli di cambiamento personale e sociale. Da una vita si batte, impavido, contro ogni forma di prevaricazione e sfruttamento e porge la sua pietosa mano a tutti quelli che bussano alla porta della sua lungimirante visione ed azione evangelica. Gremite le sue liturgie religiose, e Tonino partecipa fervidamente.

… Luigi Palmiotti, occhi che ormai vedono solo ombre, appassionato cultore di storia e tradizioni locali. Risiede a Bisceglie, dove dirige il museo della civiltà contadina, che ospita figure di cartapesta dell’Abbattista. Immancabile, ogni settimana, la capatina alla casa dell’anziano suocero, che coltiva viti e ulivi di San Ferdinando.

…Pina Catino, responsabile dell’Unesco nella città del poeta Leonardo De Mango, promuove significative iniziative culturali, artistiche e storiche. Organizza e guida escursioni sul territorio che lasciano un segno di meraviglia e soddisfazione in tutti i partecipanti.

Ascolti con emozione gli interventi, che lumeggiano i tratti salienti del volume, ne assapori la lettura delle poesie decantate dalla poetessa Tina, da Rosario e da Ermanno Acquaviva, uno dei tanti bimbi di allora che hanno la straordinaria fortuna di formarsi culturalmente ed umanamente nell’aula-laboratorio dell’autore del libro. L’atmosfera diventa magica, inspiegabilmente provi la sensazione che da un momento all’altro il grande Tonino debba apparire con la fisarmonica fibrillante.

Commenta Rosario: “Per me, c’è più umanità su una panchina della nostra piazza dove si riuniscono tre o quattro anziani che conversano tra di loro in dialetto, che nei salotti televisivi dove improvvisati e improbabili tuttologi parlano dell’universo mondo, con lo scopo di riscuotere il gettone di presenza.” Egli auspica l’alba di un giorno in cui il dialetto possa essere insegnato nelle scuole, restituendo identità linguistica ed esperienziale alle comunità del territorio.

Le poesie di Tonino rievocano la civiltà contadina.  Mestieri scomparsi, umili animali, piante del territorio, utensili di cucina, oggetti che allietano l’infanzia di bimbi, uomini, vita del paese. Aleggia l’eco di Pablo Neruda, attento alla vita delle umili cose quotidiane, degli animaletti insignificanti, dei mestieri vilipesi, che recuperano dignità letteraria.

La lingua? Il dialetto di San Ferdinando, che Tonino apprende dalla mitica zia Margherita, dai genitori, dai vicini di casa, dai coetanei scalzi e cenciosi della strada, dai tanti contadini che frequentano la bottega del padre, stagnino. L’idioma degli avi, un cimelio del passato, crogiuolo di lemmi ed esperienze prodotte dai numerosi popoli succedutisi con le armi in pugno nel territorio, veicolo linguistico guardato con sospetto e puzza sotto il naso, dalle famiglie che vi vedono un retaggio di miseria e di disvalore sociale, un ostacolo all’emancipazione culturale, sociale ed economica.

Oggi, di quell’idioma ne è rimasta una pallida ombra nelle conversazioni informali tra amici e in famiglia, mentre si è diffuso ampiamente nelle chat e nei social network lo squallido linguaggio delle emoticon imposto da torme di esperti della comunicazione assoldati da chi gestisce cinicamente la finanza, l’economia, la politica e la tecnologia.

“Il volume di Tonino Abbattista, costituisce per la nostra comunità cittadina”, precisa don Mimmo, un piccolo tesoro di intelligenza, di ironia, di buon senso. Il suo stile, leggero, dolce, pungente e a tratti amaro, nu pìcche dòlce e… n’àte pìcche amàire.

Ma chi è Tonino Abbattista?

Lo conosci il 29 maggio 1974. Tu, insegnante di lettere della locale scuola media a braccetto di Angela, fidanzata. Sfila al tuo fianco con la sua inseparabile Maria. Il lungo corteo stigmatizza con energia il feroce attentato terroristico di matrice neofascista che il 28 maggio insanguina Piazza della Loggia a Brescia. Partecipi con entusiasmo all’iniziativa politica, anche se il giorno seguente il mitico Marco Bisceglia, prete del dissenso, ti attende a Lavello per la celebrazione del matrimonio anticoncordatario.

Sventola in prima linea la bandiera intrisa del sangue di braccianti di San Ferdinando. Grande sdegno alberga nel volto e nei gesti concitati dell’amico per quei padri di famiglia trucidati perché osano pretendere di entrare in possesso delle terre che avrebbero sfamato i loro figli.  Si infiamma nel parlare di Peppino Di Vittorio, l’uomo che cambia la vita dei lavoratori.

Poi, ti apre l’anima. Fino a vent’anni lavora indefessamente nella bottega paterna, impregnata di fumo, acidi e stridii di metalli, frequentata da casalinghe per teglie di rame da rivestire di stagno e contadini con falci e zappe. Un giorno Michele Mosca, suo fraterno amico, passeggiando sulla pubblica piazza … “Tonino, non puoi continuare a fare lo stagnino per tutta la vita, i tuoi occhi incespicanti…”

Tonino – …E che devo fare…? A vent’anni…?

Michele – Riprendere i libri, ti aiuto io. Ti presenti privatamente agli esami e in pochi anni raggranelli un diploma che ti consentirebbe di svolgere un lavoro meno impegnativo per la vista.

Una boccata di ossigeno per i suoi genitori e la cara zia Margherita. Ogni giorno, infatti, Tornino rincasa con gli occhi infiammati e lacrimanti, mentre il numero delle diottrie scema.

Studiano alacremente, i due amici. A giugno, agli esami di terza media superati brillantemente, gli esaminatori lo lodano per la solida preparazione culturale e l’umanità maturata. Esposti i quadri, i due amici escono raggianti dalla scuola.

Michele – Questo è solo il primo passo, Tonino. Ora devi frequentare una scuola superiore.

A ventitré anni, nel 1961, lo stagnino, mani callose e bruciacchiate, consegue l’abilitazione magistrale. Emozionatissimo il primo giorno, nel mettere piede nella scuola elementare.  Una schiera di bambini, accerchiandolo e strattonandolo, lo guarda con curiosità e timore. Sorride, e i visi si distendono.

Per decenni, almeno una volta la settimana raggiungi con tua moglie l’abitazione degli Abbattista. Occasioni di svago e di profonde riflessioni, di convivialità, indimenticabili. Con tanta bella gente! Conosci il tuo amico come le tue tasche e lui è di casa in te, non ci sono segreti tra di voi.

Maestro per quarant’anni, soprattutto maestro di vita. Quando prende la parola, tutti d’incanto ascoltano il vate, perennemente alla ricerca della verità. Mai una parola o un gesto fuori luogo, affabile la conversazione empatica, limpido lo sguardo, sincero ed autentico il rapporto. Ascolta con identico rispetto e raccoglimento le parole di semplici persone del popolo e gente istruita.

La sua aula… un laboratorio di musica, pittura, cartapesta, canti popolari, carri allegorici per i cortei carnevaleschi. Per lo studio della geografia indugia nella lettura del territorio, che fa amare. Per la comprensione della storia, parte dalle vicende quotidiane, interpellando i volti bruciati dal sole e le mani callose dei frequentatori della sua bottega.

Venera profondamente i suoi agnellini, riconoscendo di ciascuno la propria specificità e i talenti. Col fuoco dell’amore e della cultura ne attizza la curiosità e la dignità, come col mantice fa brillare le fiamme della fucina.  I più fragili recuperano la fiducia in sé stessi, i più capaci s’inerpicano agevolmente su alte vette culturali. Tutti imparano ad acquisire e sviluppare capacità creative, spirito critico, attenzione verso l’ambiente e cura delle persone più fragili.

Traduce nel dialetto di San Ferdinando alcune commedie di Joseph Tusiani, poeta, scrittore, traduttore che fa conoscere all’America i grandi classici italiani. Incredibile, Joseph, l’italiano più conosciuto e stimato negli Stati Uniti, assiste gongolante alle rappresentazioni che vedono protagonisti gli alunni della locale scuola elementare.

Intanto, Tonino coltiva i suoi hobby, la musica, in primis. Al compleanno ed all’onomastico una folla di amici e conoscenti invade e presidia la sua abitazione, mentre le calde note della fisarmonica, percorrendo la distesa di viti e peschi, bussa alla porta della remota oscurità.

Diventa magica l’atmosfera conviviale, quando l’archetto del maestro Raffaele De Sanio, primo violinista del Petruzzelli, scivola limpidamente sulle corde del violino. Completa la cornice musicale col suo clarinetto Domenico Daloiso, inseparabile amico dell’anfitrione.

La pittura e la scultura non demordono. Le pareti delle stanze e dei corridoi sono illeggiadrite dai corpi di donne, dai paesaggi, dai ritratti che denotano padronanza delle più svariate tecniche artistiche e l’intensa capacità espressiva.

La poesia e la narrativa, legate alla sua vita, alle sue esperienze, al suo paese, alla sua anima inquieta sono di casa. Oltre al libro di poesie presentato, pregevole la raccolta “Aspitte n’àte pìcche”. Numerosi i racconti e gli articoli pubblicati dai giornali del territorio.

Legge, Tonino, tanto! O meglio ascolta al computer la lettura di giornali e libri. Non si ha una pallida idea della tenacia e della fatica che lo impegnano. Un altro avrebbe lasciato cadere ogni velleità e si sarebbe rassegnato all’ineluttabilità delle condizioni fisiche, ma lui non si dà per vinto davanti ad ostacoli perfino insormontabili.

Gli amici di ogni condizione sociale e culturale gli fanno corteo, un nugolo sterminato! E lui non delude nessuno con la sua disponibilità. Per anni, lunghe conversazioni al telefono con Pietro, un suo coetaneo che si aggira nella sua abitazione con un bastone bianco.

L’ospitalità, incommensurabile! L’accoglienza calda, i fornelli della cucina diventano incandescenti all’arrivo di ospiti. Tutti, trascorrendo ore indimenticabili, al momento del commiato, provano un sentimento di profonda gratitudine, intanto avertono che qualcosa è cambiato nelle loro anime.

L’attenzione verso i beni pubblici lo porta ad interessarsi di politica, quella che si prende cura dei bisogni della gente e rispetta il territorio. Gode del rispetto e della stima degli avversari politici che apprezzano la sua correttezza e linearità.

Profondo il suo spirito religioso, si accumulano sul tavolo del soggiorno le omelie di Don Mimmo Marone. Adotta assieme la Maria, compagna della sua vita, Carmela e Giuseppe, generosa impresa, molto impegnativa e rischiosa per l’età dei ragazzi avuti dapprima in affido.

Intanto la vista scema, i contorni delle cose e delle persone diventano sempre più evanescenti, così qualcuno immancabilmente lo affianca con piacere e devozione per guidare i suoi passi per le vie della città.

Un’immensa fortuna per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo e frequentarlo! Per un paese schiacciato da immensi problemi sociali e criminali!

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Invisibili fuor di metafora

 
Maria Aljokhina, a sinistra, e la sua ragazza  Lucy Shtein mentre provano il travestimento da rider

Maria Aljokhina, a sinistra, e la sua ragazza Lucy Shtein mentre provano il travestimento da rider

Non vediamo quel che abbiamo sotto gli occhi. Che il luogo più sicuro dove nascondersi sia una piazza, mescolarsi alla folla alla luce del sole, è noto. I ladri sanno che è più facile che qualcuno ti fermi se nascondi la refurtiva: se la porti tranquillamente sottobraccio hai più possibilità. E’ così anche nella vita: vediamo quello che ci viene nascosto, è lì che sospettiamo, ma non ci accorgiamo di comportamenti i cui indizi sono disseminati attorno a noi.

La storia di Maria Aljokhina, Pussy Riot, evasa a Mosca dai domiciliari indossando i panni di una rider è illuminante per diverse ragioni. Primo: persino in Russia, oggi, puoi sfuggire al controllo claustrofobico e non serve un piano di evasione da film. Basta, semplicemente, confondersi alla folla – come sempre. Quale folla? I veri invisibili sono i corrieri delle consegne a domicilio. Sono panorama non percepito, lo scenario abituale. La donna è uscita dalla casa dove si trovava ai domiciliari vestita con una divisa di una ditta di delivery, ha raccontato in un’intervista: giacca con cappuccio verde, berretto e zaino con le insegne.

Non ha nemmeno dovuto salutare con disinvoltura, o accelerare davanti alle guardie. Ne ha incrociate molte, fino al confine. Una volta lì, è riuscita a varcarlo al terzo tentativo. La storia è appassionante, ve la consiglio. Mi è tornato in mente che durante il primo severo lockdown anche i corrieri della droga, lo spaccio urbano, consegnavano a domicilio indisturbati. Il fine per cui ti mascheri dipende, in effetti. La questione è quale sia una maschera sicura: dei rider si denuncia la povertà di diritti dicendo che sono “lavoratori invisibili”. Anche fuori di metafora: letteralmente invisibili.

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La scelta di Amedeo

Foto dal sito www.pietredellamemoria.it
Foto dal sito www.pietredellamemoria.it 
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La prima cosa bella di giovedì 12 maggio 2022 è che anche dentro le orribili cronache di una guerra si trovi qualcosa che ridà fiducia nel genere umano. La scelta di Amedeo, per esempio.

Sempre a proposito dell’eccidio di Quota, accaduto nel luglio del ’44. Dopo la mediazione del professore e della maestra i nazifascisti avevano ridotto a 5 gli uomini da fucilare, a distanza di 5 minuti uno dall’altro. Un quarto d’ora, quattro morti. L’ultimo doveva essere Emilio Spinelli, padre di 6 figli.

Raccontano che si fece avanti suo fratello Amedeo, scapolo, rastrellato insieme con lui. Andò dal comandante tedesco e chiese di prendere il posto del fratello, dietro promessa che questo sarebbe ritornato alla sua famiglia. Il comandante assentì. Amedeo abbracciò suo fratello, gli consegnò il portafoglio, si spostò e fu trapassato dai proiettili.

 

Poteva ritenere inevitabile quel che stava succedendo. Poteva pensare che uno vale uno. Poteva giurarsi di prendere in carico la famiglia del fratello. Fece la scelta più semplice, la più difficile.

Poi, come ci ha insegnato il soldato Ryan, a tutti i salvati spetta il dovere di essere uomini per bene, condurre una vita decente e, se possibile, evitare un’altra guerra. 

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(Leggo)

Dopo che ebbe lavato i piedi ai discepoli, Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: un servo non è più grande del suo padrone» Gv 13,16-20.

 

Lavare i piedi ai poveri è una metafora cristiana che va contro tutte le regole del buon senso. Per il mondo invece, che disprezza i deboli, i vulnerabili, gli esclusi, il potere risiede nella dominazione e la felicità nella triade empia del potere, del prestigio e del possesso. È un’idolatria seducente. Per questo Cristo l’aveva predetto, per mitigare lo choc e, insieme, per dare prova di essere colui che era stato mandato. Perché questa è la sua prima preoccupazione.

 

(Prego)

O Signore, che conosci coloro che hai scelto per mandarli in missione, fa' che accogliamo con umiltà e fiducia gli apostoli e i profeti di oggi che testimoniano con la loro vita la tua presenza fra noi.

 

(Agisco)

Servire è accogliere.

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(Leggo)

«Le cose dunque che io dico, le dico così come il Padre le ha dette a me» Gv 12,44-50.

 

Nel suo ministero, Cristo, tralascia il nome di “Dio” e introduce quello di “Padre”. Il nome di “Dio”, come per esempio “Il denaro è il suo dio”,è diventato un nome freddo, che non esprime né genera alcun sentimento o affetto. Diverso è il concetto di paternità. Esso implica l’idea di figli e di figlie, suggerendo amore e tenerezza. Questa verità è la chiave che apre molte porte, la luce che mette allo scoperto ciò che è santo e nascosto.

 

(Prego)

O Dio, vita dei tuoi fedeli, gloria degli umili, beatitudine dei giusti, ascolta con bontà le preghiere del tuo popolo, perché coloro che hanno sete dei beni da te promessi siano sempre ricolmati dell’abbondanza dei tuoi doni.

 

(Agisco)

Che io possa essere un segno, anche piccolissimo, della paternità di Dio.

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La vocazione della famiglia in Amoris laetitia

 
 
 

Una riflessione ad un mese dall’incontro mondiale delle famiglie

Quest’anno dal 22 al 26 giugno è in programma a Roma il X Incontro mondiale delle famiglie. Da sempre  lo schema seguito è stato abbastanza simile: un Congresso teologico-pastorale internazionale all’inizio e la conclusione, alla presenza del Papa, con una veglia, una festa delle famiglie e con una grande celebrazione eucaristica finale nel Paese designato.

A causa della situazione particolare legata alla pandemia quest’anno la proposta avrà un carattere tutto particolare: il congresso teologico-pastorale sarà organizzato si a Roma ma con la possibilità di seguirlo anche a distanza. Così anche la celebrazione eucaristica alla presenza di papa Francesco sarà celebrata a Roma il sabato pomeriggio e trasmessa in mondovisione per dare a tutti la possibilità di seguirla a distanza. La grande differenza di questa edizione, dal carattere multicentrico è che si invitano le varie diocesi a celebrare l’evento nel proprio territorio e  alla presenza del proprio Vescovo. Nel presentare la novità Papa Francesco in un video messaggio, ha  invitato tutte le diocesi a programmare iniziative a partire dal tema: “L’amore familiare, vocazione e via di Santità”. A tal proposito, il servizio diocesano per l’accoglienza dei fedeli separati dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie ha chiesto a Mons. Domenico Marrone una riflessione sulla vocazione della famiglia in Amoris laetitia che si riporta di seguito. Un testo significativo e che offre opportuni spunti che ci aiutano nel percorso di preparazione alla X giornata mondiale delle famiglie.

***

Il 19 marzo 2021 ricorreva il quinto anniversario dalla pubblicazione dell’esortazione apostolica “Amoris Laetitia” (AL), sulla bellezza e la gioia dell’amore familiare. Per questa ricorrenza papa Francesco ha indetto un anno dedicato alla famiglia che si concluderà il 26 giugno 2022 con il X Incontro Mondiale delle Famiglie a Roma con il Santo Padre.

È un’opportunità per approfondire i contenuti dell’Esortazione apostolica. Dal momento che il tema dell’incontro mondiale, scelto da papa Francesco, sarà “L’amore familiare: vocazione e via di santità”, questo mio contributo intende soffermarsi sulla categoria di vocazione riferita al matrimonio, anche perché rileggere tutta la ricchezza di contenuti dell’Esortazione apostolica è compito impegnativo.

Sin dall’inizio dell’Esortazione apostolica è affermata la centralità dell’amore nel matrimonio. Il documento pontificio presenta una triplice caratteristica di novità, semplicità e complessità.

Dio chiama tutti alla santità e quindi alla felicità. Il raggiungimento di questa chiamata non è il prodotto di uno sforzo personale ed è impossibile senza il rapporto con gli altri. Non siamo individui isolati, ma persone in relazione con Dio e con i fratelli e le sorelle che vivono accanto a noi e condividono con noi questa esperienza. Siamo cercatori di una gioia che non ci costruiamo, ma che ci viene donata ed è tutta da scoprire. L’iniziativa della santità non parte da noi, ma da Dio stesso: è Lui che ci chiama e ci ama per primo. Quella degli uomini è solo una timida risposta a questo amore.

Aprendo la Scrittura ci accorgiamo che il Signore chiama continuamente a un rapporto di amicizia personale. Ogni chiamata, pur diversa, è accomunata dalla stretta relazione Dio-uomo. C’è una sola vocazione comune a tutti, quella ad amare, ma ci sono modi diversi di realizzarla.

Nel documento traspare la gioia per il dono della vocazione matrimoniale narrata e valorizzata. Sebbene in questo nostro tempo le coppie che chiedono di sposarsi nel Signore giungano con percorsi, storie e condizioni le più diverse, rimane fondamentale riconoscere come la scelta di vita matrimoniale sia una vocazione, alla pari di quella presbiterale o religiosa.

La domanda che interpella da sempre la nostra esistenza è il senso di un’esistenza vissuta nella sua pienezza e totalità; cioè un’esistenza soddisfatta, pienamente realizzata. Questo però non nel senso egoistico: una vita è decisamente realizzata nel momento in cui si completa/realizza in un’altra persona. Questo è ciò che avviene per chi decide di vivere la propria vita accanto ad un’altra persona (vocazione matrimoniale) e chi decide di realizzare la propria esistenza al servizio totale di altri (vocazione religiosa). La personale risposta a questo appello è l’atto attraverso il quale io “decido” che quella non può essere altrimenti che la realizzazione della mia vita: non c’è altro modello di vita che potrebbe portare a pienezza la mia esistenza.

Il termine vocazione in AL è inteso in senso biblico, così come appare fin dal primo capitolo, nel quale la realtà familiare è contemplata alla luce della Parola di Dio, un Dio che bussa alla porta di ogni famiglia perché desidera essere accolta da questa per condividerne l’intimità e trasfigurarla (cfr. AL 15).

Mentre in Familiaris consortio l’accento è posto sull’idea di stato di vita, in AL l’accento cade decisamente sull’incontro personale con il Vangelo e la persona di Cristo.

In AL si parla a più riprese della vocazione, proprio perché il matrimonio è realmente una vocazione. Attenzione, però: vocazione significa riferimento a Cristo. Non può esserci alcuna consapevolezza della propria vocazione, né alcuna preparazione al matrimonio, se non c’è un rapporto con Cristo.

La connotazione biblica della categoria linguistica della vocazione ne evidenzia la dimensione storico-salvifica: la chiamata a seguire il Signore è animata da un dinamismo che spinge a un progressivo approfondimento della relazione con Cristo. La vocazione della famiglia è quindi intesa come la storia della relazione con Dio nella vita di coppia.

Papa Francesco ribadisce con forza la presenza di Cristo vivente all’interno della famiglia, Chiesa domestica, che diventa, con l’aiuto dello Spirito Santo, forza permanente e trainante per la vita della Chiesa, famiglia di famiglie. Questo legame rende il matrimonio un segno sacramentale dell’amore di Cristo per la Chiesa, una vocazione specifica che invita a vivere l’amore coniugale come segno imperfetto dell’amore tra Cristo e la Chiesa.

Nel matrimonio la risposta all’amore di Dio che chiama prende corpo nella storia d’amore degli sposi, i quali nella loro quotidianità costruiscono le relazioni di comunione familiare dove Dio ha la propria dimora (cfr. AL 315).

Se il matrimonio è la risposta della coppia all’invito rivoltole da Cristo a seguirlo sulla strada del reciproco dono totale di sé, allora è necessario discernere continuamente nella propria storia coniugale le orme di Cristo che conduce progressivamente gli sposi alla pienezza del dono “per portarlo ai vertici dell’unione mistica” (AL 316).

L’autodonazione degli sposi, sotto la guida di Cristo, assume ogni giorno di più la forma dell’autodonazione di Cristo impressa in ogni relazione sponsale affinché possa svilupparsi nel corso della propria storia attraverso un dinamismo incessante di dono di sé analogo al dinamismo intratrinitario che in esso si rispecchia (cfr. AL 314).

Si tratta di un cammino che si svolge tra il già del dono gratuito di Dio che chiama e non ancora del compimento al quale ogni coppia tende incessantemente. Assistiamo qui a un cambio di paradigma: si passa dal matrimonio come stato di vita predeterminato, nel quale si entra per vivere conformemente alle regole che lo definiscono, al matrimonio come vocazione nella quale si cresce giorno dopo giorno in relazione a Dio che chiama.

C’è un passaggio da un paradigma volto ad operare un controllo sullo spazio in cui si articola la relazione coniugale a un paradigma incentrato sull’intento di attivare un processo che nel tempo porti a una sempre maggiore conformazione della relazione degli sposi a Cristo.  È l’applicazione al matrimonio del principio della superiorità del tempo sullo spazio (cfr. Evangelii gaudium 222).

Se il matrimonio è la “risposta alla specifica chiamata a vivere l’amore coniugale come segno imperfetto tra Cristo e la Chiesa” (AL 72), ne consegue che il matrimonio è edificato dall’amore coniugale in termini di fedeltà, cioè come atteggiamento che prende corpo all’interno della relazione di coppia per esigenze interne all’amore e non come legge imposta dall’esterno, dunque come espressione della totalità del dono di sé e non come diritto all’uso esclusivo del corpo. Appare di tutta evidenza il superamento di una visione giuridico-formale del matrimonio nella quale l’amore era talmente irrilevante da arrivare ad affermare non amor sed consesum facit nuptias.

In un tempo segnato dalla frammentarietà e dall’instabilità, gli sposi cristiani svolgono la vocazione-missione di chi insegna con la vita, la fedeltà e la perennità dell’amore di Dio che non viene meno.

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Fernanda Romagnoli

 
 
 

Una poetessa a lungo dimenticata

Fernanda Romagnoli (1916-1986) considerata una delle più grandi voci del Novecento italiano, è stata lungamente dimenticata.

La sua prima raccolta viene pubblicata nel 1943. In essa la poetessa rivela il suo autentico bisogno di percepire le cose in una prospettiva “diversa”

“…odo antiche parole

rinascer lievi come piume nuove”

(Campane e fontane)

l’andare oltre verso l’Altrove

“…dove il mare respira con la luna,

dove la via del libero infinito

è facile a salir, come nessuna”

(La rondine)

trovando conforto e forza nella religiosità della sua anima scovando, così, una via d’uscita da formule rigide a cui lei sembra refrattaria.

La seconda raccolta esce nel 1965, qui i versi acquistano una maturità più spiccata e ne intensificano la sua presa di coscienza della propria diversità e il suo desiderio di mettere le distanze da tutto ciò che non è autentico.

“…la colomba dell’alba sulla riva

nell’occhio roseo decifrò me sola

che non avevo ballato”

(Lungamente)

L’inautentico che aborra e da cui si allontana sentendosi un’estranea “ io quella donna dall’anima dimessa/dicono che son io” (Io) immaginando di poter succhiare come un’ape il polline della vita affinché ciò che muore possa rinascere in altre forme:

“…Lente alla ringhiera

stanno le rose-ansiose di sfiorire-

e invocano il pugnale delle vespe.

Ma Iddio manda fra loro

un’ape che ne serbi la memoria

quando il morto rosaio non sarà

che una corona di spine” (Rosaio).

La terza raccolta Confiteor del 1973 è un libro di confessioni a tutto campo, qui la Romagnoli scandaglia i lati più contraddittori, passionali e vacillanti della propria storia intima. Tutto questo meravigliosamente racchiuso nei versi di una tra le sue poesie più belle: Stigmata

“Qui dunque fui bambina. Alla marina

crescevo accanto: l’anima digiuna

d’ogni perché – famelica altrettanto.

Gigli ad oriente, la riva era una spada.

Stupendo sacrilegio imporvi un segno

– l’arco del piede – premere col viso

La freschezza deposta dalla luna.

Il mare straripava nel sereno

a livello dei cigli. Ah, la bellezza

che pativo, non mia, che mia stringevo

in quel primo singhiozzo di creatura

che s’arrende all’immenso – era già il pegno,

la stigmata che in me sfolgora e dura.”

Lei, nei ricordi di bimba, si estranea e ritrova quella fiducia infantile in quel che sarà e che, invece, si rivelerà in modo totalmente diverso: una vita di madre, moglie e poetessa che non saprà mai conciliare, una realtà familiare quasi subita, in cui la Romagnoli sente attorno a sè i duri confini che la vita le ha alzato attorno.

Per non perdersi, per ritrovare se stessa e per comprendere il senso della propria vita, rivolge al suo Dio la sua preghiera in modo accorato:

“…Ma Tu, dovunque effuso ad ascoltare,

presente ma nascosto,

zitto come l’uccello avanti l’alba:

non dove sei-rivelami ov’io sono.

Mio Dio, se t’abbandono

io sarò abbandonata”

(Preghiera)

Il libro-testamento appare nel 1980, Il Tredicesimo Inviato. Qui la poetessa ha riportato le sue angosce, i suoi turbamenti e il tempo che fugge inesorabile ma in modo più attento, rifinito, un’attenzione dolce verso la poesia considerata come la via preferenziale per raggiungere la verità e la salvezza:

“…Il mio poco darei

per un unico verso che resti

testimonio di me,

un attimo posato sulla terra

-lieve-come un coriandolo

di questi”

(Carnevale)

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donmichelangelotondo più di un mese fa

Uomini in gruppo e donne sole

 
American Girl in Italy, 1951, copyright 1952, 1980 Ruth Orkin, con l'autorizzazione del Ruth Orkin Photo Archive

American Girl in Italy, 1951, copyright 1952, 1980 Ruth Orkin, con l'autorizzazione del Ruth Orkin Photo Archive

Mi capita ancora oggi. Se camminando per strada vedo un gruppo di uomini con una birra in mano, che ne so, davanti a un pub, o nei pressi dello stadio dopo la partita, o di notte in un angolo di una piazza: attraverso, cambio marciapiede. Istintivamente, proprio. Perché ho imparato da piccola a difendermi, me lo hanno insegnato come credo a tutte le bambine, e nel corso dei decenni ho continuato. Che un gruppo di uomini insieme, forse ubriachi, sia un pericolo per una donna sola non è una possibilità: è una certezza.

Non occorre aver letto “Massa e potere” di Elias Canetti per conoscere il comportamento delle folle, anche se aiuta. Basta averne fatto esperienza una sera qualsiasi. Quando sono insieme, gli esseri umani in quanto animali si comportano molto diversamente da come farebbero trovandosi da soli. Per una serie di ragioni studiate, codificate e ricorrenti. Ora: io capisco perfettamente che difendersi non sia la lezione giusta da dare. Lo ripeto da tutta la vita, lavoro a questo: non è la vittima a doversi difendere ma l’aggressore a dover imparare a non aggredire. Bisogna insegnare a non offendere, non a schivare l’offesa. Certo.

Però poi, nel frattempo, mentre questo percorso arduo e virtuoso è in corso (è in corso?) bisogna tenere presente la realtà. “Il battaglione Aosta sta sempre sulle cime ma quando scende a valle attente ragazzine” – slogan scandito da alcuni alpini al raduno di Rimini, secondo le denunce di centinaia di donne – è vintage come una radio a transistor. Farebbe persino sorridere, non fosse che poi ti mettono le mani addosso. Servono anni di educazione e sanzioni, cultura condivisa. Intanto serve anche, se hai un bar, non mettere bariste al banco, quel giorno.

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