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L'inverno delle startup

di Riccardo Luna
 

L'inverno delle startup

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Qualche giorno fa, uno dei più importanti investitori della Silicon Valley ha detto che per il settore tecnologico e in particolare per le criptovalute, è iniziato l’inverno; ma ha aggiunto di non spaventarsi perché, come è arrivato, l’inverno finirà. Per dimostrarlo, un altro ha annunciato di aver creato un nuovo fondo da 4,5 miliardi per investire nel settore.

L'immagine da Trono di Spade, questo "inverno delle startup", rende bene l’idea di quello che sta capitando a causa della guerra e della crisi finanziaria. In altri tempi, guardando i titoli azionari andare in picchiata verso il basso, avremmo detto che la bolla speculativa si sta sgonfiando, come accadde nel 2000. Ma rispetto a quel drammatico crollo, questa volta la speranza è che i fondamentali del settore siano più solidi; se così fosse saremmo davanti soltanto a una trasformazione esemplificata da una espressione mitologica: “Stanno sparendo gli unicorni, è il momento dei centauri”.

Gli unicorni sono le startup con una valutazione superiore al miliardo di dollari, una definizione coniata nel 2013 da un investitore che aveva creato una specie di classifica di tutte le startup del decennio che avevano raggiunto quel traguardo: erano 39, una media di 4 ogni anno. Qualche mese fa erano diventate più di mille, risultato di un'economia che per anni, con i tassi di interesse azzerati, ha iniettato denaro facendo schizzare le valutazioni delle startup destinatarie di investimenti importanti. Se prima i membri del club degli unicorni stavano in una stanza, adesso hanno bisogno di un teatro. Lo status di unicorno è diventato il sinonimo di successo, anche se quei valori sono slegati dal fatturato e dai profitti (molte startup di successo non fanno profitti per anni).

Ora quella stagione è finita, dicono: quello che conta è il fatturato sicuro, basato su contratti e abbonamenti. Con 100 milioni di dollari di fatturato una startup può definirsi un centauro. Ed è un ritorno ai fondamentali: come per qualunque attività economica, conta quanto vendi e non quanto si pensa che venderai.

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Gioia chi molla

di Gabriele Romagnoli
 

Gioia chi molla

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La prima cosa bella di giovedì 26 maggio 2022 sono quelli che dicono: mollo tutto. Quel che viene dopo è vario ed eventuale. Ci fanno film, come il temibile “Mollo tutto e apro un chiringuito”. O magliette, della serie “mollo tutto e vivo in barca” o con variazione a seconda del punto vendita: “E vivo a Lipari”, “a Capri”, “a Vattelapesca”. Non è la seconda parte della frase ad avere importanza. Il chiringuito e l’isola sono stati mentali temporanei, non è per la destinazione che si parte, ma per staccarsi da dove ci si trova. Quelli che indossano la maglietta “Mollo tutto” sono quelli che non riescono a farlo, si accontentano dello slogan, guardano il film e si consolano pensando che tutti tornano indietro, che è una deriva. Quelli che hanno davvero mollato tutto, semplicemente non li senti più, qualunque cosa sia loro accaduta. Ma c’è una tenerezza comune in quel desiderio di mollare tutto. Tanti passano metà della vita a cercare di raggiungere una posizione, una riconoscibilità e un’autostima (carica, faccione, firma) e poi capiscono che la felicità sarebbe “mollare tutto”. E’ un po’ aver creduto al guru sbagliato, ma è bello accorgersene. Il passo successivo è comprendere che quel “tutto” era una briciola, bastava un soffio per scompigliare la cabina armadio e i suoi ordinati scheletri. Gioia chi molla.  

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L'abolizionista

di Gabriele Romagnoli
 

L'abolizionista

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La prima cosa bella di mercoledì 25 maggio 2022 è un padre abolizionista che si ricorda l'aforisma di Nietzsche: "Maturità dell'uomo è ritrovare da grandi la serietà che da bambini si metteva nei giochi". Cammino di sera, sempre per le stradine di Ventotene. Da una casa con la porta aperta escono tre bambini schiamazzando. Si intuisce che sono parenti, fratelli e cugini. Due chiudono il terzo in un angolo e gli dicono: "Adesso sei il nostro schiavo e fai tutto quello che diciamo noi!". Il bambino abbassa la testa. Rallento. In quel momento dal tinello su strada esce un uomo sulla quarantina, furioso: "Che cosa avete detto? Uno schiavo? Nessuno è uno schiavo, neppure per scherzo!". Uno dei bambini si difende: "Ma facciamo a turno!". L'uomo la prende ancor peggio: "Non ci sono turni per la schiavitù. Non deve esistere. Per nessuno. Non ci si gioca. Se vi risento parlare di schiavi, domani niente mare!". Gli altri adulti, dentro casa, sembrano chiedersi se non stia esagerando, ma credo abbia ragione lui e i primi a rendersene conto sono proprio i bambini. Prima che crescano, prima che pensino sia possibile, che la storia sia un turno e la sofferenza degli altri uno scherzo. Prima, molto prima: adesso. 

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Il vecchio passaporto

di Gabriele Romagnoli
 

Il vecchio passaporto

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La prima cosa bella di venerdì 27 maggio 2022 è il vecchio passaporto. Ogni dieci anni c’è questa piccola cerimonia: te ne consegnano uno nuovo, ma ti ridanno (con un taglio che lo rende inservibile) quello vecchio. Riaprirlo è un modo per ripassare la tua vita, la storia di un decennio e perfino fare i conti con il futuro. Dal Machu Picchu al Circolo polare artico (che hanno timbri appositi) ho sorriso alla bellezza dei ricordi, ho contato gli ingressi in America, notato il vuoto 2020-2022. Fin lì tutto bene. Poi sono venute le cartoline degli addii. Capita sempre, a ogni cambio del documento. In quello precedente erano luoghi come lo Yemen e la Siria (Shibam e Aleppo vivranno per sempre, ma nella memoria), in questo a suscitare l’effetto sono i visti per la Russia. La macchina del tempo si rimangia il Riviera Express da Bordighera a Mosca (e poi, con un altro treno, su fino ad Arkhangelsk), le stazioni della metro nella città imperiale, le chiese di San Pietroburgo. Non ci sarà più modo, tempo, forse nemmeno voglia. Si viaggia, ma all’indietro: frontiere chiuse, realtà diverse. Mc Donald’s che lascia la Russia, Starbucks che lascia la Cina, non è una ritorsione, non è la sconfitta della globalizzazione, è solo l’avviso di una retromarcia. Il mondo è un uovo Fabergè, meraviglioso e colorato, ma devi poterlo girare fra le dita per capirlo, o guardi sempre la stessa pietra.  

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La celebrazione della morte

di Michele Serra
 

La celebrazione della morte

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Queste stragi di bambini negli Stati Uniti (più di 45mila morti all’anno per armi da fuoco!) sono abominevoli quanto una guerra, e senza nemmeno le ragioni, pretestuose o meno, di una guerra. Non c’è un torto da vendicare, non il fantasma di una nazione da resuscitare: c’è la morte, solo la morte da celebrare, in un giorno qualunque. Quelle stragi nelle scuole sono il pozzo dal quale non c’è risalita, il male che non sente nemmeno il bisogno di definirsi, il più irrimediabile presagio di estinzione, la pazzia al potere, Satana che si manifesta persino a chi non crede che esista.
Una società che genera, in forma oramai strutturale, questo orrore, e non è capace di fermarsi, e ripensarsi daccapo, dalle radici, è una società che non ha domani. Il governatore del Texas, e tutti gli uomini di potere che, contro l’evidenza, continuano a benedire le armi da fuoco come simulacro della libertà americana, evidentemente considerano gli americani, bambini compresi, carne da macello, e la cosiddetta libertà un feticcio, un totem, un idolo al quale fare sacrifici umani.


Non c’entra niente il pregiudizio antiamericano, c’entra il giudizio sulle azioni umane. Un Paese nel quale è lecito rimpinzare di armi ogni casa, e comprare un fucile da guerra è un gesto alla portata di qualunque ragazzino, non è un Paese che può esercitare una leadership morale credibile. Una legge che metta fine a questa abominevole libertà di sparare sarebbe un segnale di speranza per il mondo intero: ma da quanti anni la aspettano inutilmente, gli americani pacifici, e con loro gli esseri umani che odiano la violenza?

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(Leggo)

«è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito» Gv 16,5-11.

 

La presenza comincia solo nel momento in cui due esseri si conoscono spiritualmente e si mettono l’uno di fronte all’altro consapevolmente. Ciò permette loro di avere interiormente una sorta di immagine l’uno dell’altro, per cui l’altro ha una seconda esistenza in colui con il quale è in rapporto. Ed essa può diventare una realtà potente in chi ci conosce e ci ama. Anche la solitudine può essere piena della presenza dell’altro.

 

(Prego)
O Dio, che per mezzo dello Spirito consolatore continui a contestare la nostra incredulità, rendici coraggiosi nel denunciare i falsi valori della nostra cultura razionalistica e consumistica.

 

(Agisco)

Un pensiero nella mia preghiera per tutti i bambini e ragazzi  che vivranno per la prima volta i sacramenti.

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Con le buone

Con le buone
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La prima cosa bella di lunedì 23 maggio 2022 sono le buone maniere. Le mamme, almeno un tempo lo facevano, regalano libretti che le insegnano ai loro bambini. Non so quante copie circolino. Poche, immagino, guardando gli highlight dei talk show; l’unica cosa che il giorno dopo ne resti: le liti. Penso che le madri di certi ospiti, professori universitari, parlamentari della Repubblica, si sintonizzino con orgoglio, magari in compagnia: “Vede, quello è mio figlio, sta in Commissione esteri, insegna a Roma, sa tutto di geopolitica, è uno scienziato, è il direttore del quotidiano X”. Ci sono cenni d’assenso, vocali d’ammirazione. Il figlio comincia a parlare, chi conduce lo guarda in tralice, aspettando. Poi l’altro figlio s’inserisce. Il dialogo diventa un duello, sale di tono. Il professore offende, l’altro insulta. Le mamme sussultano. L’ultima volta li videro così in cortile e li chiamarono su, in casa. Di corsa. Ora vorrebbero, ma chi conduce non aspettava altro, fa finta di separarli, ma conta i secondi, sa che lo share sta salendo e domani di questo si parlerà. Nessuno sa più perché si stiano insultando, tranne le loro mamme, che volevano farsi spiegare il mondo da quei figli. Cfr. Il mio primo libro delle buone maniere. Gallucci Editore. Ci sono anche le figure.   

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Pensiero del giorno…

 
 
 

Spargere di sale

ferita inerme,

non chiedere mai

quanto è lunga la notte.

I boccioli prendono forma,

le stelle crepitano in cielo,

cespugli volteggianti

di nontiscordardimé

solfeggiare nel crepuscolo,

rondini di ritorno a casa.

 

Assaporare attimo dopo attimo il conosciuto come se fosse tutto nuovo, ma con spirito diverso per rilanciare un entusiasmo assopito.


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I giochi olimpici

 
 
 

Molto più  della vergognosa propaganda nazista che ne fece Hitler nel 1936

I Giochi olimpici, senza dubbio, sono la manifestazione sportiva più importante al mondo. Un palcoscenico sul quale, alle imprese sportive di atleti divenuti immortali,vere icone dell’epoca contemporanea, si sono intersecate le dinamiche politiche globali e non solo. Innumerevoli sono stati gli episodi nei quali la politica ha travalicato i confini del puramente sportivo. Una vittoria, un gesto, una presa di posizione sono stati spesso caricati di un significato altro, trascendente, simbolico…

Dopo i primi anni in cui le Olimpiadi avevano faticato a emergere come evento sportivo totalizzante, Adolf Hitler colse a pieno il potenziale che tale manifestazione poteva avere ai fini della propaganda nazista. Fece mettere su un’edizione in grande stile, che Leni Riefenstahl ha immortalato nel suo leggendario “Olympia”, preambolo di quello che i risultati militari tedeschi non sono stati. Peccato che un non ariano, Jesse Owens, avesse rovinato la festa, vincendo quattro ori sui 100 m, 200 m, staffetta 4×100 e battendo il suo rivale tedesco, Luz Long, nel salto in lungo, morto poi nella seconda guerra mondiale.

Che i Giochi fossero la cassa di risonanza ideale per smuovere un po’ le coscienze, l’avevano capito Tommie Smith e John Carlos, che con il loro pugno nero alzato a Città del Messico, avevano celebrato l’oro e il bronzo per gli Stati Uniti, nazione che li tributerà con insulti e minacce. Quei Giochi  furono turbati dal massacro di Piazza delle Tre Culture, dieci giorni prima dell’inaugurazione. Dici Città del Messico, e la mente va a Fosbury, inventore di un metodo nuovo nel salto in alto. Rivoluzionario, come d’altra parte quell’anno.

Era il 1968.

A Monaco ’72 un’ ipertecnologica edizione, che aveva conosciuto le prodezze in vasca di mister sette medaglie d’oro, Mark Spitz, fu violata dalla strage messa in atto da Settembre Nero, che tenne in ostaggio e massacrò undici atleti israeliani, macchiando un’edizione che andò avanti con l’inerzia di parole sofferte e obbligate, pronunciate dal presidente del CIO Avery Brundage :”The Games must go on”. Una tragedia a cui Spielberg ha dedicato un film.

Facile andare con la memoria alla stagione dei boicottaggi, che era iniziata prepotentemente con la rinuncia ai Giochi di Montreal da parte degli atleti africani, che avevano lasciato il villaggio olimpico in segno di protesta, per una tournée della nazionale neozelandese di rugby in Sudafrica, bandito dal CIO per le leggi razziali dell’Apartheid. Soltanto due squadre olimpiche africane, Senegal e Costa d’Avorio, presero parte ai Giochi, dove brillò la stella di Nadia Comaneci, rumena.

Nel 1979 l`Unione Sovietica invase l’Afghanistan. Un anno dopo Mosca avrebbe ospitato i suoi Giochi olimpici, ottenuti a spese di Los Angeles. Molti paesi occidentali scelsero di boicottare la kermesse olimpica, tra cui parzialmente l’Italia, che in segno di protesta lasciò a casa gli atleti che gareggiavano nelle squadre militari, sfilando sotto la bandiera olimpica. I risultati di questa grande assenza giustificata furono la mancanza di sessanta paesi, un medagliere stravinto dall’URSS e un livello, in alcune discipline, falsato. Per noi italiani, i ricordi più belli furono la vittoria di Pietro Mennea sui 200 m e quella di Sara Simeoni nel salto in alto, caso più unico che raro nel quale le rivali erano tutte presenti.

Quattro anni dopo cambia la sede, non la musica: i russi ricambiano il favore, non presentandosi negli States, con altre tredici nazionali. Furono le Olimpiadi di Carl Lewis, il figlio del vento, che ottenne quattro medaglie d’oro nell’atletica. Inutile dire che gli Usa furono primi nel medagliere.

Dal 1992 tornò ai Giochi di Barcellona il Sudafrica, mentre in quell’edizione l’URSS vi prese parte sotto il nome di CSI (Comunità Stati Indipendenti) e alla Jugoslavia, in fase di autodistruzione, fu negata la partecipazione, situazioni che si erano già proposte nell’edizione del Campionato Europeo di calcio, effetti del crollo della Cortina di Ferro.

Recentemente, a Tokio la Russia ha concorso senza bandiera e senza inno, a seguito dello scandalo doping del 2014, scandalo che, alla luce dei recenti sviluppi geopolitici, potrebbe avere non solo giuste motivazioni sportive, ma anche politiche perché lo sport alle volte, parafrasando scioccamente Von Clausevitz, è la continuazione della politica con altri mezzi.

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