(Leggo)
«...perché siete con me fin dal principio» Gv 15,26-16,4.
La sua missione non è tanto di ispirare i discepoli di modo tale che si sappiano difendere davanti ai tribunali (cf. Mt 10,20), ma di preservarli quando la loro fede sarà messa alla prova. Davanti all’ostilità del mondo, i discepoli di Gesù saranno esposti allo scandalo, sentiranno la tentazione di disertare, proveranno il dubbio, lo scoraggiamento. Ed è in questo preciso momento che lo Spirito di verità interverrà: darà testimonianza di Gesù nel cuore dei suoi discepoli, li confermerà nella fede e li inviterà a rimanere fedeli nella prova.
(Prego)
Salga a te la nostra supplica, o Padre: dona al nostro cuore il coraggio di vivere in conformità al Vangelo, per essere su questa terra instancabili operatori di pace, e diventare un giorno cittadini del cielo.
(Agisco)
Trasformare la tristezza in canto di lode.
«E se le fantasie nostre son basse
a tanta altezza, non è maraviglia;
ché sopra ‘l sol non fu occhio ch’andasse»
(Paradiso X, vv.46-48)
Dante e Beatrice ascendono nel quarto cielo, quello del sole. Appaiono loro gli spiriti sapienti della prima corona. In particolare, ascoltano le parole di San Tommaso d’Aquino che presenta un lungo elenco di ben undici beati: Alberto, che per antonomasia fu detto Magno, Francesco Graziano, a cui si deve la distinzione tra legge divina e legge umana, Pietro Lombardo, che donò ogni suo avere, e Salomone, il sapiente per eccellenza; seguono Dionigi l’Areopagita, teologo sulla natura degli angeli, e Paolo Orosio, le cui opere ispirarono Sant’Agostino; ancora, Severino Boezio, che ci ha edotto sulla fallacia della realtà mondana, e Isidoro di Siviglia, Beda il Venerabile, Riccardo di San Vittore. Chiude l’elenco Sigieri di Brabante, maestro di filosofia in quel di Parigi e oggetto di invidia per le verità che seppe dimostrare.
Ciascuno di queste grandi cuori, e acute menti, meriterebbe di essere conosciuto da vicino, ma evidentemente non può essere questo l’obiettivo del nostro caffè ristretto.
Mi soffermerò piuttosto su una terzina che mi pare riassuma nel modo giusto la loro passione:
«E se le fantasie nostre son basse
a tanta altezza, non è maraviglia;
ché sopra ‘l sol non fu occhio ch’andasse»
(Paradiso X, vv.46-48).
In libera traduzione: e se le nostre parole sono troppo basse per elevarsi a simili altezze, non c’è da stupirsi, giacché nessun occhio umano ha potuto fissare una luce più intensa di quella del Sole.
Questa terzina è immediatamente preceduta da quella in cui Dante, e sarà un vero e proprio leitmotiv sino all’ultimo del Paradiso, confessa l’inadeguatezza del suo ingegno: per quanto si sforzi e per quanto provi a raccontarci quel che ha visto, ammette il poeta, non riuscirà mai ad offrircene un’idea compiuta.
E conclude: «ma creder puossi e di veder si brami» (v.45). Ovvero: io non lo so descrivere, tuttavia è possibile crederci, perciò tu desidera di vederlo.
L’impossibilità, l’incapacità dell’umano ingegno, la ricerca del “varco”, l’attesa di una possibilità, di una “occasione”, soprattutto, il desiderio, quello capace di forzare l’aurora, specie se si è nelle condizioni di una sentinella che ha attraversato, in piedi e immobile, una intera e gelida notte: che meraviglia!
Mi sembra la sintesi di un’intera esistenza, un’esistenza degna di essere vissuta, l’esistenza che è propria di quanti meritano il titolo e la luce dei sapienti.
Sono gli stessi che ci illuminano. Di bene in meglio. Animati dalla molla della loro sete di sapere. Come Beatrice. Come ogni donna e uomo di buona volontà e larghe passioni.
Fabrizio de Andrè: «Vuoi davvero lasciare ai tuoi occhi solo i sogni che non fanno svegliare?».
Michelangelo: «Signore, fa’ che io possa sempre desiderare più di quanto riesca a realizzare».
Gibran: «Il desiderio è metà della vita, l’indifferenza è metà della morte».
Valentina non vuole più fare i conti con cosa pensano gli altri di lei
Valentina Babini, 21 anni, Savigno, fa la baby sitter ma sta scrivendo il suo romanzo
Mi sono sempre chiesta che peso hanno i sogni. Non quelli che facciamo di notte nel bel mezzo del sonno più profondo. I sogni nel cassetto, quelli così preziosi e delicati da non volerli raccontare a nessuno per paura che altrimenti si disintegrino. Fino a qualche tempo fa, credevo che il mio sogno nel cassetto fosse diventare insegnante. Ora so qual è il sogno che mi fa brillare gli occhi e non ho paura di dirlo o forse un po' sì.
Fa paura sognare perché a volte le persone che ti circondano non credono in te, sentiamo quindi il bisogno di dimostrargli che siamo meglio di quello che credono e che possiamo raggiungere i nostri obiettivi. Certo, questo non è il mio caso. Mi rendo conto però che tantissimi ragazzi e persone in generale, non fanno la vita che vorrebbero e non provano le esperienze che vorrebbero provare, solo per paura di non farcela e sentirsi giudicati da qualcuno a cui tengono.
Buttare i propri sogni per paura del giudizio degli altri è un po' come buttare la propria vita perché pensiamo che essa valga meno di quella di qualcun altro. Siamo noi gli "artigiani" della nostra vita e anche quando tutti ci remano contro e ci vogliono fare credere che non arriveremo da nessuna parte, dobbiamo lottare con tutte le nostre forze per dimostrare a noi stessi e solo a noi stessi che non siamo quello che gli altri vogliono farci pensare. Mi sono resa conto da qualche tempo che il mio sogno nel cassetto, quello più intimo e personale è fare la scrittrice e non so se verrà mai pubblicato un mio racconto, un mio libro e se magari diventerò famosa.
Ci credo però e questa credo che sia la chiave del successo interpersonale perché da qualche tempo ho capito che non voglio infrangere i miei sogni e non mi interessa più di quello che pensano le persone. Credete in voi stessi, nei vostri sogni e in tutto quello che vi fa stare realmente bene. Non abbiate paura del giudizio degli altri perché ci sarà sempre qualcuno pronto a puntarci il dito contro, sta a noi non permetterglielo perseverando.
Una delle meravigliose tavole le libro di Mariagiulia Colace
Ho pescato un libro senza titolo, nella magica officina di Ideestortepaper, fiabesca casa editrice in Palermo. E’ un albo illustrato e scritto da Mariagiulia Colace. In copertina non c’è altro che un disegno: una bambina con le scarpette rosse e i calzini bianchi calati, un vestito fiorito e una cassetta di legno per uccelli sulla testa, forse al posto della testa, chissà. Vive in un mondo di persone che invece della testa hanno una gabbia: dentro ci sono rondini, altri volatili.
Della bambina, di nome Nica, non si sa. Tutti, in questa storia, hanno paura della stagione in cui gli stormi di uccelli “disegnano forme che come le idee si dissolvono una nell’altra”. Si difendono, chiudono le gabbia a chiave ma Nica no, lei ha una casetta di legno senza porta né chiavi. E’ un magnifico apologo poetico, il testo, sulla paura di pensare. La paura dei propri e degli altrui pensieri. Sarà per caso, ma nella moltitudine di opere al Salone del Libro me ne sono rimaste in mano tre che di questo parlano: il collasso del pensiero su cui l’epoca in cui viviamo è edificato. “Cosa è reale?”, si domanda il ragazzino che sente le voci nel libro-scrigno di Ruth Ozeki, “Il libro della forma e del vuoto”, manuale per decifrare un mondo in cui tutte le tazze sono già rotte – si romperanno, dunque lo sono.
Rotto è il mondo del pensiero razionale in “La pietra della follia” di Benjamin Labatut, tenebroso astro nascente della letteratura cilena: qui, soprattutto, le teorie del complotto segnano il punto della storia in cui “il vecchio è già morto e il nuovo non può nascere”. Qui, oggi, il confine. Eccoli, “i fenomeni morbosi più svariati”: cancellato il discrimine fra il vero e il falso, inutile – obsoleta - la ragione.
...e niente, Gesù non ci ha mai ingannato o preso in giro.
(Prego)
O Signore, che ci hai detto che il servo non è più grande del suo padrone, concedi a noi, da te eletti e amati come tuoi amici, di discernere ciò che nel mondo è contro la tua volontà da ciò che invece è conforme alla tua Parola.
(Agisco)
Di fronte alle difficoltà rinnovare e rinfrancarci nel nostro mettere la fiducia in Lui.
Questo racconto leggero, di piacevole lettura, scorre veloce e nella sua semplicità ti rapisce perché ci si ritrova a vivere una Parigi non da turisti, ma da “iniziati” al gusto un po’ bohémien della ville lumière.
La trama si perde nei meandri dei pensieri e delle emozioni di Oliva mentre assapora ed impara piano piano ad apprezzare quelle piccole libertà che ti fanno sentire viva.
“Ci sono piccole libertà che ci cambiano per sempre perché tante piccole libertà ne fanno una grande.”
Nella semplicità delle piccole cose dimora l’eterno di uno sguardo rivolto al nostro io più felice.
Seguire il proprio istinto, mordere con passione attimi di vita imprevisti ed improvvisi, non darsi per vinti perseverando nell’inseguire i propri sogni: tutto questo così apparentemente impalpabile nell’ovvietà dei desideri che ognuno di noi possiede si tramuta in opportunità vere e concrete nell’inaspettata quotidianità di Oliva.
Ci si ritrova, così, ad annusare una nuova positività nel pensare ai tanti “qui ed ora” che tessono la nostra vita immaginando che basta volere perché tutto diventi possibile.
Un felice salto nel regno del realizzabile mangiando macarons stando a cavalcioni sul muretto che costeggia la Senna.
Siete pronti anche voi ad intraprendere questo viaggio? Dedicatevi del tempo spensierato!!!
Durante i conflitti, sono i bambini che non periscono, a diventar adulti in “breve” tempo… Glissando quelli che noi chiamiamo problemi, dalla nostra vita: ci...
Il futuro dei Balcani, complicato e sempre pronto a deflagrare, passa da quello dell’Europa e della Russia
La Costituzione del 1974 dava la possibilità alle Repubbliche di Jugoslavia (Serbia, Croazia, Slovenia, Bosnia, Macedonia, Montenegro) di potersi separare dalla Federazione e di diventare indipendenti, ad eccezione delle due province Vojvodina e Kosovo, dove vivevano delle minoranze, che godevano tutto sommato di una certa autonomia. In un certo senso, Tito aveva intuito che dopo la sua morte, avvenuta il 4 marzo 1980, la Repubblica Socialista avrebbe potuto sciogliersi. Fino ad allora, serbi, croati, bosniaci e sloveni avevano vissuto fianco a fianco, in pace, cercando di favorire “l’unità e la fratellanza” tra le varie etnie e anche dopo la dipartita del Maresciallo non ci furono nell’immediato grossi problemi di convivenza.
La caduta del Blocco Orientale ha favorito ataviche rivalità tra le diverse etnie che hanno scatenato l’inferno delle guerre jugoslave. Non è un caso che la prima Repubblica a separarsi, la Slovenia, avesse vissuto il distacco in maniera quasi indolore, in virtù del fatto che lì le spinte etniche erano meno pressanti rispetto al resto della Federazione e per la maggiore vicinanza del territorio al contesto mitteleuropeo, col quale gli sloveni avevano maggiore affinità. Diverso discorso per quei territori dove vivevano fianco a fianco croati, serbi e musulmani che si fronteggiarono in una guerra che conobbe l’infausta variabile della pulizia etnica. Non solo bisognava reclamare l’indipendenza territoriale, ma i confini nazionali dovevano essere “purificati” dalla presenza straniera. Si doveva perseguire il sogno della Grande Serbia, della Grande Albania o della Grande Croazia, una riunificazione etnica che avrebbe disgregato il vecchio Stato in entità etniche allargate, che minacciavano anche Stati sovrani terzi (discorso che riguarda la creazione di una Grande Albania comprendente territori della Grecia).
A questo proposito, difficile pensare a una proiezione geografica della distribuzione etnica dei vari popoli, allorquando le etnie convivevano e si mescolavano, nel vero senso della parola, rendendo impossibile una delineatura grafica sulla cartina. E allora la soppressione, le violenze e gli esodi si resero utili per eliminare la presenza ostile, un tempo il fratello nell’unità dello Stato (il motto della RSFJ era “Bratstvo e Jedinstvo fratellanza e unità). Portare a termine l’unità etnica ha comportato la creazione di Stati sui quali restano forti dubbi e resistenze. È il caso del Kosovo, eticamente diviso un tempo in albanesi e serbi (non esisterebbe il kosovaro in senso stretto), che rappresenterebbe il primo passo verso la creazione della Grande Albania, una transizione verso uno Stato unitario albanese; o il caso ancor più spinoso della Bosnia-Erzegovina, un Paese creato a tavolino all’indomani degli accordi di Dayton, che non dispone di una vera e propria costituzione, ma di un accordo internazionale scritto in inglese, dove il fuoco del conflitto brucia ancora sotto la brace, in una situazione volutamente tenuta in sospeso dalle forze straniere, pronte a riaccendere la miccia nella polveriera balcanica.
Non è giusto tuttavia pensare all’inevitabilità di un conflitto etnico e lo dimostra la secolare convivenza delle varie etnie, come viene spesso ricordato dai romanzi di Andrić e dalla volontà di creare uno Stato degli Slavi del Sud che riunisse i vari popoli in un’unica realtà nazionale e che si liberasse dell’oppressione austro-ungarica. Ancor oggi a Belgrado ad esempio vivono e lavorano croati, albanesi e macedoni, in un contesto di tolleranza, e proprio in Serbia esistevano scuole per albanesi e ungheresi (presenti ancora), insomma in favore delle minoranze. Anche dal punto di vista della lingua, le differenze sono pressoché minime. Viene da pensare che la disgregazione dello Stato jugoslavo sarebbe stata inevitabile anche perché costituzionalmente definita a suo tempo, ma un conflitto così cruento e sanguinoso poteva essere evitato, soprattutto dalle potenze atlantiche che hanno colpevolmente indugiato sugli orrori che venivano commessi al di là dell’Adriatico, sfruttando la debolezza storica della Russia.
Il futuro dei Balcani, complicato e sempre pronto a deflagrare, passa da quello dell’Europa e della Russia. L’attuale conflitto ucraino russo potrebbe divenire il pretesto (la Republika Srpska da tempo chiede di separarsi da Sarajevo e il Kosovo teme un’azione di Belgrado) per riaprire la contesa in nome di ragioni etniche sempre disponibili per la causa.
Se c’è una cosa che ho imparato in tanti anni che mi occupo di startup e che seguo la cultura della Silicon Valley, è l’importanza della gestione dei rimproveri in un team (ma anche in una famiglia): se vuoi che una squadra resti una squadra, se non vuoi umiliare chi ha sbagliato, se lo vuoi aiutare a sbagliare meno, il rimprovero non è mai pubblico. Davanti ai colleghi. In una chat che tutti possono leggere.
La segnalazione di un errore si fa in privato. Fare il contrario è una pubblica gogna. Vuol dire esporre il malcapitato anche alla riprovazione dei colleghi: è un’umiliazione inutile e dannosa che giorno dopo giorno demolisce una squadra. Lungi dall’impedire altri errori, che invece ci saranno, impedisce altre iniziative, proposte, idee. Trasforma i componenti di un team in automi che per evitare i rimproveri si debbono conformare a svolgere esattamente le mansioni che gli sono state affidate senza cambiare nulla, senza proporre nulla. Senza il coraggio di segnalarti se stai facendo a tua volta un errore. Questo impoverisce una squadra. Che diventa come una pianta senza fiori. Viva, ma spenta.
Una volta il preside di una scuola media ha chiamato un ragazzo per sospenderlo per cattiva condotta. Per i primi 20 minuti lo ha riempito di elogi per il suo talento, al punto che quello pensava lo stesse premiando. Poi gli ha detto che a malincuore lo sospendeva un giorno così che potesse tornare a essere se stesso. Quel preside ha capito tutto: i rimproveri sono fondamentali, ma vanno ridotti al minimo. Solo per le cose davvero importanti e senza umiliazioni. Perché sulla paura di sbagliare non si costruisce alcun successo.
La performer Silvia Calderoni porta in scena MDLSX da Middlesex di Geoffrey Eugenides
La voce l’orecchio la parola il respiro, elenca Mariangela Gualtieri, “semi della divinità”. “Mi pare sia sempre più necessario dare voce viva alla poesia, diffonderla come si dà pane agli affamati perché sempre più la denutrizione è psichica e interiore”. Arte Orale, poiché la poesia nasce appunto come evento sonoro: recitata a memoria, cantata, declamata. “Avventuroso cammino verso la solonostra voce. Solonostra voce. Giace sul fondo bambina ammutolita striminzita giace”.
Non ha bisogno di maschere, la nuda voce: maschere per non patire, per proteggere sé, per abbellire sé. “L’incanto fonico”, lo chiamava Amelia Rosselli: così s’intitola questo libro gioiello manuale da mandare a mente. Sottotitolo, “l’arte di dire la poesia”. Strumenti, alcuni: il silenzio, la memoria, la paura, l’attenzione, il respiro, il pianto. “L’aristocrazia degli attenti. La sola a cui appartenere”. E ci guardava entrare da un manifesto, il volto di Mariangela Gualtieri, ieri all’ingresso dell’Angelo Mai – luogo dove si fa un teatro che dà a ciascuno il posto che cerca, luogo libero, nella Roma assediata.
Di nuovo Silvia Calderoni con la compagnia Motus portava in scena, come dal 2015 fa con incessante successo, MDLSX da Middlesex di Geoffrey Eugenides. “Un ordigno sonoro”, dice il programma di sala. Incanto, ordigno. Non si può dire, bisogna vivere l’esperienza di libertà dei confini del corpo, di appartenenza ciascuno al proprio corpo che Calderoni offre al pubblico affamato e spesso infine in lacrime di gioia. Viene voglia di esserci ogni sera a trovar pace ma “non potrò tornare, domenica”, le ho detto. “Non posso”. Ha sorriso: “Il teatro è fatto per questo: per essere perso”. Il teatro, e anche noi.