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Perfetta letizia (Paradiso XI)

 
 
 

«O insensata cura de’ mortali, 
quanto son difettivi silogismi 
quei che ti fanno in basso batter l’ali!»

(Paradiso XI, vv.1-3)


L’undicesimo del Paradiso è uno di quei canti che immancabilmente si leggono a scuola e, anche per chi non ha frequentato il liceo, non sono rare le occasioni in cui si citano le nozze mistiche di Francesco d’Assisi con Madonna Povertà, che è appunto il contenuto principale qui narrato.

Parla ancora san Tommaso, un domenicano, e celebra il panegirico del fondatore del francescanesimo, così come nel canto che segue sarà un francescano, san Bonaventura, a inneggiare ai meriti di San Domenico, padre dell’Ordine dei Predicatori a cui Tommaso appartiene.

Dopo un incipit in cui Dante prende le distanze dalla insensata cura de’ mortali che, coi loro difettivi sillogismi (vv.1-2), stendono le ali verso il basso piuttosto che puntare in alto (vv.1-3), ecco che Tommaso interviene nuovamente ed esplicita i dubbi generati nella mente del poeta dalle sue stesse dichiarazioni laddove aveva definito l’ordine dei Domenicani con le parole u’ ben s’impingua se non si vaneggia mentre di Salomone aveva detto che, dopo di lui, non nacque il secondo.

Evidentemente, se quest’ultima affermazione intende ribadire che nessuno è stato pari a Salomone in sapienza, la prima prende le distanze da quei religiosi che, invece che seguire l’esempio e la regola di San Domenico, si lasciano traviare dalle passioni terrene: di qui lo spunto per narrare l’agiografia di Francesco.

La descrizione della sua nascita è di quelle riservate solo ai più grandi personaggi della storia, ma il punto più alto si tocca quando Dante scrive del matrimonio con Madonna Povertà. Per lei, Francesco corse in guerra del padre (vv.58-59), per lei tutti gli altri seguaci si scalzarono, per lei e con lei Francesco ebbe la prima e seconda approvazione papale, rispettivamente da Innocenzo III e Onorio III, sino a quella definitiva, con le sacre stimmate accolte sulla Verna.

Rileggendo questi versi, mi è tornato alla mente il capitolo ottavo dei Fioretti di San Francesco, quello in cui il Santo d’Assisi spiega ad uno spaesato frate Leone in cosa consista la perfetta letizia. Lo riassumo, ma il contenuto è noto.

Muovendosi da Perugia a santa Maria degli Angeli, nel cuore di una gelida notte di inverno, mentre il vento, il ghiaccio e la neve picchiano duro, ad un sempre più stupefatto frate Leone, Francesco chiarisce che perfetta letizia non è fare miracoli o convertire moltitudini né parlare tutte le lingue o conoscere tutte le scienze. Perfetta letizia è bussare alla porta del convento che tu stesso hai fondato, magari tirandolo su una pietra dopo l’altra, e sentirsi dire, va’ via, non ti conosco; quindi, bussare ancora e ancora ed esserne scacciati a suon di randellate.

San Francesco, lo sappiamo, è il santo dei paradossi, l’unico che abbia veramente meritato il titolo di alter Christus, ma a me piace considerare il lato universale del suo esempio e vorrei provare a riassumerlo così: chi ha rinunciato a tutto, veramente a tutto, non ha più nulla da perdere, niente da temere; quando ti sei definitivamente spogliato, chi può ancora ferirti?

Sotto il velo delle apparenze, il vello dell’orgoglio, la vela delle ambizioni, possiamo gonfiarci quanto vogliamo, ma di tutto saremo svuotati. Liberarcene prima, accettare di metterci a nudo, farlo per scelta, può legittimamente sembrare assurdo e follia, impossibilità.

Eppure, conduce alla perfetta letizia. Dice san Francesco.

Søren Kierkegaard: «Ci vuole del coraggio morale per essere afflitti; ci vuole del coraggio religioso per essere lieti».

Albert Einstein: «Se verrà dimostrato che la mia teoria della relatività è valida, la Germania dirà che sono tedesco e la Francia che sono cittadino del mondo. Se la mia teoria dovesse essere sbagliata, la Francia dirà che sono un tedesco e la Germania che sono un ebreo».

Bill Gates: «Quanto mi trovo alle conferenze sull’informazione tecnologica e la gente dice che la cosa più importante al mondo è fare in modo che le persone possano connettersi alla Rete, io rispondo: Mi state prendendo in giro? Siete mai stati nei paesi poveri?».

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donmichelangelotondo più di un mese fa

“Nessun giorno è uguale”

 
 
 

UNA COPPIA DI FENICOTTERI NIDIFICA A BARLETTA

L’anno scorso, nel mese di giugno, due germani reali, un’anatra muta e tre anatroccoli incedevano elegantemente, solcando la spumeggiante acqua marina, e zampettavano goffamente sulla sabbia inerbata, imbrattata da bottiglie di plastica e lattine che avevano contenuto la dolce, micidiale bevanda statunitense, nera come la pece.

Neanche un giorno mancavi al goloso appuntamento. Non appena il sole si affacciava sul rettilineo balcone dell’orizzonte, con piedi felpati ti avvicinavi a loro, olezzanti per fragranze marine, la tua mano scivolava lieve come una piuma sul dorso dei soffici ed umidi corpi, sfioravi la testa sinuosa.

Rimanevano tranquilli, compiaciuti alle empatiche attenzioni umane. Eri diventato, insomma, uno di famiglia con la tua lunga ombra che ti seguiva cautamente. Scodinzolavano nel sentire la tua voce e riconoscevano subito la tua inconfondibile andatura caracollante tra ciottoli, immondizie e spuntoni di roccia.

Smettevano momentaneamente di affondare il largo becco nell’acqua salata alla ricerca di cibo, di mordicchiare la succulenta erba, scostando quella rinsecchita color terra di Siena od ocra, di strappare dai loro corpi ciuffi di piumaggio che la brezza di terra faceva volteggiare prima di appenderli come soffici banderuole alle cime di alti arbusti spontanei.

Vi guardavate negli occhi, rotondi i loro, allungati i tuoi, un sorriso empatico si accampava stabilmente sui vostri volti. Estasiati.

Nulla, all’inizio dell’amabile dialogo informale protrattosi per mesi ed anni, lasciava immaginare l’epilogo, drammatico che nel mese di luglio, esploderà tragico all’improvviso in tutta la sua recrudescenza, lasciando tramortiti coloro che, riconoscendo legami tra tutte le specie viventi, riescono a convibrare.

Scomparve, mamma anatra muta! Ed i piccoli uno dietro l’altro, perdendo la sicura guida, procedevano come ebbri. Dopo qualche giorno si volatilizzarono nel nulla assoluto anche loro. Presto arriverà l’identica amara sorte anche per i germani reali.

Non ti desti subito per vinto, speravi che da un giorno all’altro ricomparissero festosi. Chiedesti a destra e a manca, nessuno dei vongolari interpellati seppe ragguagliarti sulle cause della sparizione. “Sono finiti, forse, in bocche fameliche che non arretrano dinanzi a nulla, neanche alla personificazione della bellezza” era il commento più diffuso a cui seguiva una smorfia amara.

Anche i fratini, innocui uccelletti nidificanti sulle spiagge europee, zampe lunghe corpo raccolto, livrea color sabbia dove costruisce i nidi, conoscono la dura fatica del vivere lungo la litoranea di ponente a Barletta dove i volontari della Lega Ambiente danno l’anima per favorirne la presenza e la sopravvivenza, costruendo per loro mimetici ricoveri di legno.

Solo al Cimitero di Barletta, dove i defunti riposano placidamente, pappagalli verdi originari del Brasile, svolazzando tra i neri cipressi e le candide stele di marmo coll’inconfondibile verso roco, si moltiplicano senza che nessuno li disturbi o li infastidisca. Ma nel mondo dei vivi, imprigionati in un’asfittica visione antropocentrica, annaspanti alla ricerca di un senso, invece…

Un giorno dell’Ottocento la scrittrice, giornalista inglese Janet Ross, raccolta, sostava davanti alla statua di bronzo di Eraclio. Dopo pochi minuti di contemplazione dovette con disdegno abbandonare l’ambita postazione. Scriverà nelle sue memorie che in nessuna parte del mondo aveva incontrato monelli petulanti ed insolenti come quelli che l’avevano infastidita a Barletta.

Erano forse gli antenati di quegli indisponenti eredi, piccoli e grandi, che in mille modi cercano nell’epoca attuale con le loro indifferenze, ipocrisie e delittuose azioni di infangare, deturpare e saccheggiare persone e territorio, come se compissero nobili gesti?

Sussurra Paulo, Coelho, uno degli li scrittori più letti oggi, famoso anche per gli aforismi, …

“Nessun giorno è uguale

all’altro, ogni mattina

porta con sé

un particolare

miracolo

il proprio momento

magico, nel quale

i vecchi universi

vengono distrutti

e si creano nuove stelle.”

Si genera affinità elettiva, vedendo i due fenicotteri rosa, una bella coppia, nidificanti a Barletta a breve distanza dal sito che accolse festosamente germani reali ed anatre mute, misteriosamente scomparsi, quando scolaresche e bambini accorrevano a frotte per accoglierli con curiosità e meraviglia.

Il fenicottero rosa, diffuso in Africa, in India, nel medio Oriente e nell’Europa meridionale ha deciso di fermarsi a Barletta, sì, in prossimità della lunga cancellata di ingresso al porto marittimo. Neanche nei sogni più entusiasmanti poteva manifestarsi un evento più fausto.

Il piumaggio, bianco rosato, le penne copritrici, rosse, mentre quelle remiganti, nere. Il becco, rosa.  Una macchia nera staziona inconfondibile sulla punta. Volatili che incantano con le loro movenze e la soffusa grazia delle sfumature corporee.

Il maschio, respirando l’aria della città che negli anni settanta del secolo scorso divenne la più prolifica d’Italia, leggermente più grande della femmina, pavoneggiandosi, propone, ammiccando, l’amplesso. Perentorio il diniego della femmina.

Incredulità? Ecco la foto che, ritraendo la coppia, fuga ogni perplessità! Per il momento la femmina manifesta indisponibilità, ma tutto lascia sperare che le avances del suo compagno presto avranno successo, e implumi rampolli arricchiranno la loro vita ed i nostri occhi.

Presumibilmente presto, una colonia si insedierà stabilmente nel territorio che diede i natali al pittore Giuseppe De Nittis, il cui erede Borgiac, nome d’arte di Borraccino Giacomo, mattacchione estroso ed allegro, ha provveduto a gettare un seme, mettendo in moto le ali della sua spigliata fantasia.

Ecco in successione temporale la frequenza degli eventi finora maturati…

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donmichelangelotondo più di un mese fa

Chi scrive, scrive perché…

 
 
 

Quando è troppo, è troppo!

Chi scrive crede nella Democrazia, nel Bene Comune e nella Giustizia.

Chi scrive tuttavia deve aprire questo articolo con parole dure: l’Italia è anche ipocrita è puttana. E alludo ai diritti costituzionali negati o riconosciuti per carenze burocratiche in ritardo: fatti di cronaca inerenti la richiesta di suicidio assistito da parte di un essere umano costretto all’immobilità da una malattia, lo ricordano.

E alludo a tutti coloro che affidano la propria istruzione e cultura a dei quiz inumani propinati pare per azzannare l’anima e farci credere che siamo inadeguati per certi lavori.

E alludo alla facilità con cui ogni organizzazione criminale ha potuto uccidere in 40 anni di Repubblica senza che lo Stato sospettasse e impedisse per tempo.

E alludo ai funerali che sono più dei compleanni, alle fabbriche che danno lavoro preventivando diagnosi tumorali, alle metastasi del miserrimo tornaconto politico.

Ogni singolo cittadino di questo Paese a conti fatti è un “cristo” migliore di ogni singolo politico.

Certo, in un paragone con l’immensa Democrazia Americana, ne usciremo feriti e sanguinanti per opportunità e sogni sociali e culturali: ma la Costruzione americana è una delle più guerrafondaie del mondo, si può comprare un’arma e usarla per difendere la proprietà privata dall’uomo di colore, dai messicani, dagli ispanici e portoricani e persino dall’orso Yoghi.

Tutti bersagli mobili per un popolo che ha la necessità di premere il grilletto per soddisfare le proprie frustrazioni ideologiche.

La nostra Costituzione è bellissima, è premurosa, è paterna e materna: scritta da uomini straordinari perché umili e lungimiranti.

La morte di ogni essere umano ci riporta a riconsiderare la nostra posizione sotto un cielo che ci meritiamo poco: tanto spazio per stelle e galassie ma così poco per lanciare in alto oltre il blu e le nuvole e le stelle il cuore.

Il cuore che imbottigliato e conservato sotto vuoto non sa più per cosa battere e quel battito lo compie per mera abitudine.

Tante meraviglie, tanti libri scritti in millenni, tante vite che non insegnano nulla.

Un tempo si accendevano fuochi e uno accanto all’altro si era difesa e conforto.

È bastata una epidemia da COVID per infrangere lo specchio che ci rifletteva egoisticamente felici e dietro l’unica minaccia che temiamo, la morte, ci siamo scoperti cattivi con bravura, spietati. Perché abbiamo compreso terrorizzati che non solo un’arma può uccidere, che per un virus piccolo e invisibile non esiste un’arte marziale da difesa e attacco.

Io resto seduto accanto a Oscar Wilde, a Brecht, a Eduardo, a Pasolini, a Gaber, a De André, a Peppino Impastato, a Falcone e Borsellino, a Rosario Angelo Livatino, a Giuseppe Pinelli, a Luigi Calabresi, a Carlo Alberto Dalla Chiesa, a Moro, a Walter Tobagi, a Paolo Villaggio, a Vittorio Gassman, ad Alberto Sordi, ad Andrea Pazienza, ai passeggeri del volo per Ustica e delle stragi in piazza.

E a tutti i servitori dello Stato e ai morti annegati nel mare freddo. Ne dimentico tanti e chiedo scusa.

Io preferisco essere alla loro tavola assieme a Moana Pozzi che mi sorride e mi ricorda la potenza della libertà e della bellezza e dell’intelligenza: lei è meglio di tanti altri ed è così tanta da scandalizzare la noiosa normalità.

Tutto il resto è in ombra e non mi serve luce perché l’ombra è l’armadio in cui è giusto che sia rinchiuso il nulla.

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donmichelangelotondo più di un mese fa

IN AMERICA WE TRUST!

 
 
 

I PANNI SPORCHI DELLA DEMOCRAZIA AMERICANA

Nel 1835 esce negli Stati Uniti un saggio in lingua francese di Alexis de Tocqueville, “Democrazia in America”. Comparando il sistema francese con quello americano, il magistrato transalpino delinea le caratteristiche della società a stelle e strisce. Oltre a rilevarne i pregi accattivanti, sottolinea l’acuirsi delle diseguaglianze sociali come la schiavitù – che porterà alla dolorosa guerra di secessione del 1861 – e della progressiva tirannia della democrazia, in quello che il saggista chiama dispotismo. Questa intuizione, una profezia, ha avuto un impatto considerevole, a partire dalla base della stessa società americana.

Col passare del tempo, è sorto nello spirito americano l’inconscia e famelica pretesa di essere detentori di una visione politica da dover condividere ad ogni costo e con ogni sforzo, in un messianismo di nuova generazione. Questa difesa dei propri diritti, della visione globalizzante dell’essere democratico, parte dal cittadino, che non è solo l’infinitesima cellula della società, che va educato coi valori democratici, ma è inteso come parte della milizia civile, un esercito naturale necessario che ha “il diritto  di detenere e portare armi”. Il ben noto secondo emendamento della Costituzione americana richiama all’importanza di difendere lo Stato libero, per intenderci democratico, dalle minacce che possano scalfirne la sicurezza. In nome di tale libertà, che non potrà mai essere infranta, assistiamo a una difesa ad oltranza dell’utilizzo delle armi che conosce una di quelle distorsioni che probabilmente avvalora le parole di Tocqueville. A distanza di poche settimane, l’America è ripiombata nell’incubo degli attentati, orchestrati da cittadini insospettabili, esaltati suprematisti o vittime del bullismo dei loro coetanei, che scaricano le pallottole delle loro sofferenze e delle loro folli idee su inermi civili. L’ultimo episodio, di qualche giorno fa, avvenuto nel profondo Texas, ha visto morire ventuno persone, diciannove bambini e due adulti, rimpinguando il numero delle sparatorie dall’inizio del 2022, oltre duecento. Artefice di questa impresa del terrore, un ragazzo diciottenne, Salvador Ramos che aveva comprato l’arma in occasione del suo compleanno e che aveva già orchestrato tutto in quella sua mente annebbiata, nutrita e incoraggiata probabilmente dai tragici precedenti. Salvador Ramos non ha riconosciuto l’autorità e il buon senso che dovrebbe guidare i cittadini di uno stato democratico.

Dello Stato democratico per eccellenza. Infatti ha ignorato la voce autorevole della famiglia, di sua nonna, che aveva colto i sinistri presagi dell’azione del nipote, cercando di sviarlo dalle sue intenzioni, col risultato di restarne gravemente ferita. Poco prima di passare all’azione, ha messo in guardia la società tramite Facebook sulle sue intenzioni omicide, restando ovviamente inascoltato dalla platea del social. Il risultato è stata una carneficina, un pianto inconsolabile di genitori straziati dal dolore nell’atto del riconoscimento dei corpi dei loro cari, per alcuni dei quali è stato necessario il riconoscimento del DNA.

Il presidente Biden ha usato parole di sconforto più che di reazione. Si è detto “disgustato e stanco” e si è chiesto “quando, per l’amor di Dio, affronteremo il problema delle armi?”, un tono dimesso rispetto alle ringalluzzite dichiarazioni contro la guerra, non da ultime quelle in difesa di Taiwan, parole che ha lasciato basiti non pochi americani.

Come ben si sa, la lobby delle armi negli Stati Uniti è molto forte e gestisce un mercato che non conosce crisi. Per un americano ottenere un’arma è diventato più semplice anche grazie al mercato online, un modo per aggirare i controlli che hanno comunque una certa rigidità. Colpisce dunque l’impotenza del Presidente della più grande democrazia del mondo nel trovare una soluzione ad un problema che riguarderebbe il bene comune dello Stato, la sua reale difesa. Già Obama aveva cercato di ovviare a questo annoso problema. Sorprende nel particolare periodo storico, nel quale gli USA fanno il diavolo a quattro per risolvere le crisi internazionali in corso in nome della tanto conclamata democrazia, la difficoltà di risolvere problemi interni che mettono a rischio uno dei fondamenti della vita civile, come quello della convivenza. Basti ricordare i problemi che gli afroamericani ancora oggi hanno nel non vedersi rispettati a pieno i loro diritti o la mancanza di una politica sanitaria per tutti i suoi cittadini. Lo Stato democratico continua a sancire il diritto di detenere e utilizzare armi, in nome della difesa dell’individuo e della legittima difesa, un Far Westlegalizzato, un ritorno all‘Homo homini lupus. La democrazia dei politici fa fatica a imporsi sul dispotismo oligarchico di chi fa affari macchiati dal sangue di vittime innocenti. Resta la fiducia che il modello democratico Made in Usa possa trionfare in un mondo più libero e più giusto. E allora ben venga buttare all’aria le nostre esperienze democratiche, alcune delle quali secolari, fondate sul rispetto, sul dialogo e sulla solidarietà, in nome di armi, suprematisti, razzisti e pretese imperialistiche mascherate da organizzazioni obsolete. Perché in fondo anche noi restiamo affascinati dal sogno americano e siamo convinti della sua bontà che trionferà sui nostri nemici, e per questo che gridiamo con fede cieca in America we trust!

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donmichelangelotondo più di un mese fa

Capitale umano

 
 
 

«La bellezza è potere; un sorriso è la sua spada»

(Charles Reade)

Signori, lavorare con il capitale umano è dono e dannazione: il regalo più grande e a caro prezzo che la vita possa riservare; pensateci molto bene prima di decidere di imbarcarvi in una simile impresa. 

Credetemi, pensateci bene e se davvero doveste scegliere di percorrere questa strada, focalizzatevi anche sul modus, perché in ballo c’è la vita e quella vita è la vostra.

E vi sottoporranno ad un numero spropositato di ore di tirocinio, vedrete tantissimi occhi, ascolterete moltissime voci, sopporterete un numero spropositato di pettegolezzi, leggerete lunghi manuali e niente di tutto questo sarà inutile.

Quello che non vi diranno è che un giorno potreste trovarvi nella condizione di decidere nel giro di un secondo virgola uno cosa fare: fingere che non stia succedendo niente o prendere in mano un coltello fatto di verità, maschilismo, immaturità, scherno e vigliaccheria, puntandolo dritto alla gola degli allievi che dovete educare, molto prima che istruire?

E non vi diranno nemmeno che una volta preso quel coltello, non potrete tornare indietro e dovrete affondarlo dritto nella giugulare di quelli che vi hanno portato ad armarvi. E non avrà importanza nulla di quanto vi si parerà davanti: sguardi atterriti, fronti sudate, occhi bassi, sorrisi imbarazzati, espressioni di cera, profondissimi silenzi: voi dovrete affondare la lama, senza pietà, perché per quanto capisco possa apparire folle, ci sono casi in cui solo far perire di spada chi di spada ferisce, può portare ad un microsecondo di evidenza e spiegare cosa sia l’infamia.

Ancora, non ve lo diranno che esistono circostanze per le quali a nulla varranno i vostri sudati titoli, non vi diranno che le ossa saranno rami e si spezzeranno una ad una per solidificarsi ogni volta in una posizione diversa.

No, non ve lo diranno che dentro certe deviazioni sociali sarete pressoché impotenti e non avrete scelte a parte abbandonare quei ragazzi al loro destino o prenderli per la collottola, ferendoli.

E, più di tutto, non vi diranno che a teatro concluso, quando avrete dato il meglio della vostra feroce rabbia e della vostra stridente delusione, quando sarete totalmente svuotati e vi chiuderete nel silenzio, davanti a corpi che saranno lì ad aspettare il vostro esclusivo permesso per muoversi, la vostra autorizzazione per andare, arriveranno altre voci dall’esterno a farvi i complimenti.

Nessuno vi avviserà del fatto che quando dovrete andare via dentro il vostro giubbotto di jeans e dietro i vostri occhiali da sole, guarderete in una stanza e vedrete grandi sorrisi di soddisfazione dettati dal fatto che avete avuto un coraggio da leoni e figuratevi se mai nessuno vi dirà che a testa bassa accetterete di portarvi dietro un’alunna che avrà visto tutto, si farà un selfie con voi e, guidando, vi sentirete dire, davanti allo scatto: “E questo fatto che sorride così? Anche dopo una giornata talmente di merda, lei sorride, sorride sempre!”.

No, non ve lo diranno che alcune persone adulte vi riempiranno di belle parole, di comprensione universale, di disegni divini, di gesti eclatanti, di sorprese epocali, ma in mezzo a loro, nel momento topico e nascosto del vostro successo, quando più vi sentirete fragili e tristi, saranno le parole di una piccola diciottenne piena di guai a prendervi in braccio.

Signori, pensateci bene prima di scegliere di lavorare con il capitale umano: vi diranno che è un lavoro dinamico, ma non ve lo confesseranno mai che, nel contempo, è un compito profondamente meditabondo e che al momento opportuno tutto vi consentirà di fare, tranne che meditare.


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Poliba-NTT Data: un’alleanza strategica per attrarre i talenti del Mediterraneo

 
 
 

La multinazionale giapponese punta sulla complementarietà con il Politecnico di Bari. Possibili 150 assunzioni entro il primo anno

Fermare la fuga dei cervelli si può e lo si deve fare per non depauperare un territorio delle sue potenzialità. Il Poliba e il colosso giapponese, NTT DATA (gruppo NTT, Nippon Telegraph and Telephone), hanno avviato ufficialmente un percorso di collaborazione scientifica nel quale le attività di studio, analisi e ricerca condotte dal Politecnico potranno integrare le corrispondenti attività e servizi erogati dalla Società nipponica. Si tratta di un primo passo che arriva dopo tre anni di lavoro con un programma ricco di iniziative per contribuire a trasformare Bari in un polo innovativo d’eccellenza sul panorama internazionale.

Un’alleanza strategica che fa dire agli addetti ai lavori che la rivoluzione digitale è qui, in Puglia, in corso, complice il Politecnico di Bari. L’accordo triennale, rinnovabile, risponde alla volontà della multinazionale del Sol Levante di valorizzare la ricerca accademica sul territorio e ridurre il gap esistente tra mondo della scuola e mercato del lavoro. Ed il Poliba oltre al nuovo corso di Laurea Magistrale in Ingegneria della Trasformazione Digitale ha già previsto l’aumento dei posti disponibili per i corsi di Ingegneria Informatica.

Per i non addetti ai lavori, NTT DATA Italia SpA, è parte della multinazionale giapponese NTT DATA, uno dei principali player a livello mondiale nell’ambito della consulenza e dei servizi IT. Digitale, Consulenza, Cyber Security e System Integration sono solo alcune delle principali linee di business. NTT DATA conta una presenza globale in oltre 50 paesi, 140.000 professionisti.

Le forme di collaborazione dell’alleanza scientifica, Poliba-NTT DATA Italia SpA  – e scritto nell’accordo sottoscritto da Francesco Cupertino, Rettore del Politecnico e da Luca Isetta, Chief Operating Officer di NTT DATA Italia, alla presenza del vice Sindaco di Bari, Eugenio Di Sciascio.- avranno ad oggetto, in particolare, la trasformazione digitale delle aziende, attraverso un uso sempre più estensivo delle nuove tecnologie. Ciò permetterà il ridisegno dei processi aziendali e un percorso di aggiornamento e cambiamento delle capacità professionali del personale che opera nell’impresa mediante lo sviluppo di nuove competenze digitali.

L’iniziativa si sviluppa parallelamente all’apertura dei nuovi uffici di Bari di NTT Data Italia e si inserisce nel vasto programma di investimenti previsti dall’azienda, con l’obiettivo di far diventare il capoluogo pugliese un polo innovativo all’interno del gruppo giapponese, favorendo al contempo la creazione di nuovi posti di lavoro (fino a 150 assunzioni nel primo anno).

Gli ambiti principali della collaborazione saranno: Cloud Native Technology, Cybersecurity, Data Intelligence e Intelligence Automation, IoT, Blockchain, HyperAutomation, Opensource, Integration Platform, Customer Relationship management, Digital Supply Chain e Enterprise Resource Planning.

Tale collaborazione sarà sostenuta anche attraverso l’attribuzione di tesi di laurea, borse di studio. Sono previste iniziative di sperimentazione e casi pilota, incluse commesse di ricerca, la partecipazione congiunta a programmi di ricerca nazionali e/o internazionali.

NTT Data si renderà disponibile per attività quali: svolgimento di tirocini a favore di studenti e/o neolaureati dell’Ateneo; l’organizzazione di visite e stage didattici indirizzati agli studenti; l’organizzazione di conferenze e seminari; lo svolgimento di corsi post-lauream d’interesse della Società erogati dall’Ateneo presso la sede decentrata di NTT Data Italia S.p.A. e non da ultimi il finanziamento di assegni di ricerca per corsi di dottorato di ricerca erogati dall’Ateneo su temi concordati.

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donmichelangelotondo più di un mese fa

Imre Nagy, un profeta ancora scomodo

 
 
 

Tanto da far rimuovere nottetempo la sua statua

Il Parlamento è una delle attrazioni turistiche più note di Budapest, che nei giorni scorsi abbiamo potuto ammirare nelle prime tappe del Giro d’Italia. Eretto a cavallo tra il XIX e il XX, sul modello del Palazzo di Westminster, domina la sponda danubiana che si trova nel distretto di Pest, un tempo città indipendente. Fino a poco tempo fa, alle spalle dell’edificio, uno spiazzo perlopiù ombroso per gran parte della giornata, si trovava, a pochi metri dalla stazione della metro, un monumento, un piccolo ponte ferroso che attraversava una pozza d’acqua, sul quale si affacciava la statua di uomo occhialuto, col volto sereno e lungimirante, la riproduzione plastica di Imre Nagy, ex primo ministro, tra gli artefici della Rivoluzione del 1956, risoltasi tragicamente con l’invasione dei carri armati sovietici e con la condanna a morte del politico.

Nel 2018 il primo ministro Viktor Orban aveva ordinato nottetempo l’eliminazione del monumento che era stato eretto nel 1996, in occasione del centenario dalla nascita di Nagy. Per Orban, Nagy è un personaggio scomodo, uno dei peggiori comunisti che aveva lavorato con il KGB all’epoca di Stalin, per il quale l’estremo sacrificio non potrà mai cancellarne le “colpe” .

La Rivoluzione d’Ungheria scoppia in un anno cruciale per la storia contemporanea, quel 1956 durante il quale Kruschev denuncia i delitti di Stalin e Nasser nazionalizza il canale di Suez, con la conseguente tensione internazionale. Questa sommossa popolare era iniziata con una pacifica manifestazione in favore di alcuni studenti in Polonia, violentemente soppressa dal governo di Varsavia. Dall’ appoggio disinteressato per la questione polacca, si passò alla protesta contro il regime di Matyas Rakosi, con i lavoratori delle fabbriche, affiancati dagli intellettuali, che diedero vita a consigli operai e che costrinse il Partito a nominare come ministro Imre Nagy che accolse gran parte delle richieste del popolo. Passarono giorni di incertezza, di entusiasmo popolare e di trepidazione, mentre Mosca manteneva un silenzio inquietante, un temporeggiare sinistro in attesa dell’azione di forza, divenuto il marchio distintivo dell’interventismo russo nel corso degli anni: un’invasione di carri armati che causò la morte di civili, di soldati e del ministro della difesa Pal Maleter, arrestato il 1°novembre 1956,  e che costringeva Nagy a rifugiarsi precipitosamente nell’ambasciata iugoslava, che si trovava in Piazza Degli Eroi. Questo non gli salvò la vita: dopo un contatto tra Krušev e Tito, il 22 novembre fu arrestato e successivamente giustiziato nel giugno 1958. La parabola di Nagy, rapida e dolorosa, un anticipo del “comunismo dal volto umano” di Praga e  delle rivolte di Solidarność, aprì una falla nel mondo socialista e nell’opinione pubblica dei partiti comunisti occidentali.

Per comprendere la drammaticità della situazione è utile ricordare la testimonianza di Indro Montanelli, apparsa non molto tempo fa su “Sette”, rotocalco settimanale del Corriere della Sera: «Sabato pomeriggio alle 3 abbiamo lasciato Budapest, avvolta in una coltre di nebbia, di fame e di disperazione […].La gente per le strade ci guardava partire con occhi tristi, buttandoci baci e salutandoci con cenni di mano […]. Un lungo convoglio di trenta automobili che si snodò per i viali tra due ali di popolo che ci gridava: “Non partite!… Non lasciateci soli!… Restate almeno a guardare cosa ci fanno!”».

Del monumento di Nagy restano solo i fotogrammi della memoria e gli scatti delle macchine fotografiche. Inutili sono state le proteste dei democratici che considerano Nagy un eroe nazionale e che hanno alzato la voce per tante altre limitazioni imposte da Orban, che per buona pace dei suoi oppositori e della memoria storica del povero Nagy governerà per altri quattro anni. Per chi oggi fa visita al maestoso Parlamento, troverà alle sue spalle un monumento ai caduti del terrore rosso del 1919, instaurato da Bela Kun, un altro comunista. Uno dei peggiori.

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donmichelangelotondo più di un mese fa

Una parola ruminata

 
 
 

In memoria di Saverio Sgarra

Un uomo buono, una persona pacata, un intellettuale acuto, un professionista serio, una persona integra, un compagno di tante battaglie che, quando apriva boccava, toccava ascoltare con molta attenzione perché il suo parere non era mai banale: voglio ricordare così il mio amico Saverio Sgarra, il medico che tutti abbiamo apprezzato, il vicepresidente nazionale del MEIC, il credente della soglia sempre pronto a sporcarsi le mani piuttosto che a tenerle pulite in tasca.

Soprattutto, voglio ricordare Saverio con le parole raccolte dalla voce di suo figlio Luca, davanti alla sua stessa salma, ora che mi ci sono recato per porgere l’estremo saluto: «Papà veniva da origini umili, era il figlio di un calzolaio e non aveva perso il legame con le sue radici. Non sapeva cosa fosse un orologio di marca o un’auto costosa. Aveva, però, il senso della sua dignità. Dignità. E sapeva ascoltare. La sua era sempre una parola meditata. Spesso ci diceva: “Ci devo pensare, ci devo dormire su e poi vi dirò…”. Ecco, le persone di valore, quello il cui valore non è dato dai titoli, ma dal riconoscimento che le altre persone danno loro, sono persone che sanno ascoltare. Papà sapeva ascoltare. Ed io sono stato un figlio fortunato, fortunato, fortunato…».

Sì, Saverio era una persona di valore. Che ci mancherà. E che pure resterà con noi. Perché anche noi abbiamo avuto la fortuna di conoscerlo e di imparare dal suo esempio, dalla sua parola prima ruminata e poi incarnata.

Grazie, Saverio. Grazie, amico mio. Che il tuo volo sia leggero.

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donmichelangelotondo più di un mese fa

Quale liberalriformismo nel neorepubblicanesimo?

 
 
 

Contro ogni deriva plebiscitaria neopopulista

In Italia, ahinoi, facciamo referendum costituzionali con cittadini e politici senza memoria. La memoria storico-costituzionale risulta infatti la grande assente, mentre facciamo i referendum e dopo che li abbiamo fatti. Forse perché quella grande memoria si porrebbe come anti-demagogica antagonista rispetto ai grandi poteri retrogradi, che rallentano il respiro stesso delle libertà civiche in società.

Sul referendum costituzionale del 2020 non ci sono state ancora adeguate analisi postume, eppure nel 2023 si andrà a votare alle politiche. Il risultato referendario di settembre 2020 sul c.d. taglio dei parlamentari (e del parlamentarismo stesso), unto da un’aprioristica indifferenza di Stato verso le pluraliste ragioni del No, ci ha lasciato un’eredità dannosa che non potendo accettare con opportuni benefici d’inventario, accettiamo con un più riformista beneficio del dubbio. Le ragioni del progresso trovino già in piedi i cittadini di repubblicana coscienza sulle ingegnerie politiche di sano investimento, per l’economia libera del domani, per il parlamentarismo liberale a partire dall’oggi. Per il bene dell’Italia.

Accettando l’eredità neoplebiscitaria dei populismi, la maggior parte dei votanti ha reso tutti i cittadini eredi di un parlamentarismo gnomo, che è peggio rispetto ad un Parlamento semplicemente composto da gnomi, figli di un più circoscrivibile tempo irredento con incertezze condivise. La varietà delle ragioni del No al referendum è stata liquidata monoliticamente come sponda di difesa delle ombre di un passato politico che non piace. Le vittoriose ma non gloriose ragioni del Si, invece, sono state impresse sugli immediati disbrighi delle fragili coscienze come una veloce via di fuga da un presente vuoto. La voce omnisciente spacciatasi per realista nella narrativa referendario-statalista ha intonato nei mass-media un inno d’indifferenza, pur di fronte al rischio di una subdemocrazia di solitudini, dove gli individui subiscono la rarefazione del proprio peso rappresentativo sotto il filtro alterante delle neopartitocrazie.

La logica all’interno della quale ha vinto il Si referendario decostituzionale è stata la logica della rincorsa elettorale del momento, per far rimanere a galla i già accomodati sulle pubbliche poltrone di ricambio. Ed ecco che quella falsa indifferenza dei vertici governativi verso gli interessi personali dei signori del perenne carpe diem, nella tifoseria del Si, ha portato il pane ad aprioristiche faziosità ben lontane dallo spirito di promozione della libera scelta secondo coscienza civica, per il cosiddetto bene comune.

Occorre trovare nuove nonché idonee soluzioni di contenuto politico per una macchina pubblica che sta sempre più dismettendo la propria funzione genetica di rappresentare tutte le geografie economiche, culturali ed esistenziali della eterogenea Italia, occidentale patria italeuropea che può ancora atlanticizzare all’insegna del progresso liberale la propria area di influenza nel Mediterraneo. Non si può dismettere la denuncia avverso le neopartitocrazie mobili che bloccano lo sviluppo, proprio ora che con il drastico taglio al Parlamento le arterie della rappresentanza democratica risultano ferite; proprio ora che le libertà dei cittadini risultano disordinate, o nel migliore dei casi custodite con cautele generiche e sproporzionismi al ribasso.

Quando è infatti la conformazione stessa del motore parlamentare ad essere depotenziata in una retorica dominante, subdemocratica e a-liberale, si possono anche eleggere tanti piccoli Schumacher alla guida del Paese (Schumacher che non vedo); ma la Ferrari non c’è. Intendiamoci, il sistema parlamentare italiano non è mai stato una Ferrari, ma avrebbe potuto aspirare a livelli qualitativi superiori a quelli già sperimentati, ristrutturandosi intorno alle migliori riflessioni di un sano e prudente riformismo costituzionale. E invece no, domina la retorica delle masse, all’interno delle quali gli individui perdono il volto assaliti da penetranti narrative di cyber-collettivismo.

La vittoria del metodo pressappochista portato avanti dalle agende deparlamentarizzanti, stilate da grilli apriscatolette e leninisti sbiaditi nelle lavatrici del tempo, ci ha consegnato un imminente parlamentarismo amputato di ogni prospettiva di rinascita rappresentativa. Con un taglio orizzontale irragionevole nel suo preciso quantum, al di fuori di ogni garantismo di rappresentabilità per le minoranze varie, contro ogni visione liberale di spinta neocostituzionale e neorepubblicana, la questione metodologica purtroppo viene fatta apparire come un vezzo per pochi ed elitari intellettuali. E invece no, la questione metodologica è la madre di tutte le questioni.

La macchina della comunicazione ufficiale delle maggioranze, così, si adopera per lasciar passare alla pubblica opinione il messaggio  secondo cui l’ingegneria costituzionale – fatta invero d’irrinunciabili checks and balances – è una invenzione di visionari fuori dalla realtà. È invece proprio sulla cura dosimetrica di quei pesi e contrappesi infrastatuali che bisogna lavorare politicamente, adesso, pur nella contingenza negativa del momento. Si può ed anzi si deve ripartire proprio dalle strutture istituzionali che storicamente assicurano le libertà civiche agli individui. Proprio in un momento di vicissitudini dolenti per l’ordine e l’economia occorre investire in capitali umani, progetti produttivi, cantieri strategici, da un lato, e in democrazia parlamentare, dall’altro lato nonché simmetricamente. Fra il litigioso Parlamento nel suo complesso, e il governo nel suo amplesso spesso autoreferenziale ed egoriferito, occorre imbandire tavoli che ritornino a maturare il senso della effettiva e inalienabile divisione tra i poteri dello Stato.

Da un lato occorrono investimenti in economia, dall’altro nell’ingegneria del diritto costituzionale, agendo con prudenza e con coraggio sulle ferite istituzionali del parlamentarismo, muovendosi con tatto sui diseconomici – rebus sic stantibus – nonché spericolati equilibri interni a ciascun potere dello Stato, incluso quello giudiziario.

L’esercizio meta-abusivo della decretazione d’urgenza, il ricorso ondivago e sfrenato all’istituto della fiducia da parte dei governi per celare le proprie incapacità di osare senza abusare, il giuoco del ping-pong sui testi normativi tra i due rami parlamentari: sono queste alcune delle questioni da affrontare. L’efficientamento e l’ottimizzazione di un Paese si misurano infatti sul sistema del fare le leggi rappresentando tutti i cittadini e tutte le aree geografiche, da un lato, e sul sistema di garanzia degli investimenti economici, infrastrutturali, lavorativi, dall’altro lato, in audaci simmetrie. La lungimiranza repubblicana si nutre d’altronde di armonie d’intenti pragmatici, al di là degli ideologismi delle destre e delle sinistre di struttura.

Nei tragici anni tra la prima e la seconda guerra mondiale e tra quest’ultima e l’avvento della repubblicana èra ricostituente, in Italia, il razionale sussulto politico liberale ha tracciato prospettive pragmatiche, ha seminato contributi di sapienza normativa, ha raccolto i frutti di un percorso di liberazione del suddito, poi cittadino, dagli orpelli di una statualità pesante e sovrabbondante.

La configurazione statuale odierna può diventare molto più leggera e risolutiva, priva di tutti i passaggi delle dittature burocratiche del tempo presente, priva di tutte le lentezze e i ghirigori concettuali che la dottrina giuridica spesso rileva e sconfessa, quando non li ricrea.

Si sono fatti passi avanti sul procedimento amministrativo per quanto concerne le tempistiche, la trasparenza, le responsabilità, le potenzialità partecipative in istruttoria, malgrado spesso ciò resti solo sulla carta; si sta arretrando però sul piano più sistemico della forma di governo, e quindi nella sfera di rapporti tra le varie anime istituzionali dello Stato. Con un silente, progressivo depotenziamento del Parlamento si sta sgretolando lentamente la robustezza della stessa forma di Stato, e quindi degli equilibri garantistici all’interno del rapporto tra governati e governanti in senso ampio. I tagli del Parlamento si traducono infatti in un ulteriore minor peso qualiquantitativo dei cittadini, di fronte al potere pubblico.

Il parlamentarismo a vocazione neopartitocratica che si prospetta all’orizzonte dopo la vittoria del Sì al referendum costituzionale 2020, rischia d’indebolire ancor di più le conquiste del realismo repubblicano del secolo scorso. Le sfide per il neorepubblicanesimo militante si fanno quindi più intense, anzitutto a livello metodologico. Occorre conseguentemente diffondere la cultura dell’investimento per declinare al meglio un’offerta politica condivisibile e ad ampio raggio, per il Paese Italia, davanti agli elettori in carne ed ossa.

Più innovativi nell’establishment, più forti del mainstream: ruggisca tra le righe delle proposte neorepubblicane di riforma per l’Italia l’eco di ciò che rilevò Piero Gobetti, un bel po’ di tempo fa: “Le nostre sono antitesi integrali: restiamo storici, al di sopra della cronaca, anche senza essere profeti, in quanto lavoriamo per il futuro, per un’altra rivoluzione”. Quale altra ed alta rivoluzione? La rivoluzione del neorepubblicanesimo liberalriformista, federalista italeuropeo ed al contempo italatlantico-internazionale. Soprattutto ora che occorre più che mai dialogare con tutti, Russia compresa, ma contrapporsi demo-libertariamente alle politiche ed alle mire post-nazisovietiche di Putin.

Quale futura rivoluzione riformista? La rivoluzione di un piano di riforme che declini inalienabilmente l’esercizio delle libertà d’impresa con pari possibilità di accesso e di crescita, che assicuri i traffici nella pienezza ed effettività della nuova frontiera della socialità che è l’antitrust, in una dimensione non soltanto eurounionale bensì transnazionale tout court. La rivoluzione diplomatica che preservi ciascun individuo-sovrano dalle false nonché anacronistiche socialità dei socialismi reali; che diffonda indistintamente gli strumenti del sapere libero; che garantisca l’equilibrio neutrale della giustizia al di là delle cinta murarie di parti defunzionalizzate delle magistrature; che minimizzi il ruolo di maxi-filtro di fatto delle mafie d’ogni tipo nelle scelte individuali, familiari, economiche e culturali dei cittadini.


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donmichelangelotondo più di un mese fa

I racconti brevi di Anderson

 
 
 

Verrà presentato venerdì 27 maggio, alle ore 18.00 alla libreria Feltrinelli di Bari, il libro “Morte nel bosco e altre storie americane” di Sherwood Anderson, pubblicato da DOTS edizioni. Si tratta infatti della prima traduzione italiana, a cura di Flavio Zaurino e Domenico Lonigro, completa di Death in the Woods and Other Stories, opera imprescindibile per gli amanti di Anderson, uno dei maestri della short story statunitense, osannato da personaggi come Bruce Spingsteen, Philip Roth, Nick Cave e Cesare Pavese.

Perché Sherwood Anderson è considerato il padre della letteratura americana?

Flavio Zaurino: In letteratura, ancor più che nei tribunali, le attribuzioni di paternità (o di maternità) si sprecano e sono oggetto di dibattiti particolarmente accesi. Non appena un libro fa il suo ingresso nel mondo, subito ci si affretta a trovargli padri, nonni e antichissimi trisavoli, preferibilmente nobili. Di conseguenza, ogni autore che acquisisca una certa notorietà e dimostri di possedere una voce peculiare e distinta è destinato a essere ritenuto responsabile di una lunga serie di filiazioni più o meno dirette. Ci tocca però sgomberare subito il campo da ogni equivoco: Sherwood Anderson non è il padre della letteratura americana. In primo luogo, egli stesso mai ha ambito a tale posizione, come conferma a più riprese la sua biografia; in secondo luogo, riconoscergli un simile ruolo farebbe torto agli Emerson, Whitman e Thoreau, agli Hawthorne e ai Melville, insomma a tutti gli scrittori che hanno animato quello che il critico Matthiessen ha definito come “rinascimento americano”, quella seconda metà dell’Ottocento nella quale si posero le vere fondamenta della letteratura americana, in un periodo in cui Anderson era poco più che un bambino, essendo nato nel 1876.

Detto questo, l’equivoco consente sin da subito di far luce sull’autore e sui suoi meriti: Anderson è stato e continua a essere per molti versi un cosiddetto “scrittore per scrittori”, un autore apprezzato probabilmente più dai suoi colleghi che da pubblico e lettori. Una sorte – peraltro non così rara – che nel caso specifico è stata propiziata soprattutto da colui al quale si può serenamente imputare la responsabilità dell’equivoco: William Faulkner.

È stato l’autore di The Sound and the Fury, infatti, a ripetere in più occasioni che senza i libri di Sherwood Anderson non ci sarebbero stati quelli di William Faulkner, di Ernest Hemingway, di Francis Scott Fitzgerald e di tanti altri scrittori. Che, ancora, sarebbe impossibile immaginare la letteratura americana moderna senza gli scritti di Anderson. Si tratta, a ben vedere, di affermazioni tutt’altro che infondate: i testi di storia della letteratura americana certificano una influenza piuttosto netta ed evidente del maturo Anderson sui giovani Faulkner ed Hemingway (pur con esiti alterni, in termini di rapporti personali). Ed è altrettanto vero che Sherwood Anderson ha indubbiamente influenzato il modo di scrivere negli Stati Uniti dei primi tre decenni del Novecento, inaugurando forse per primo la grande stagione modernista. Il nostro autore, d’altra parte, muove i primi passi in un paese che va lasciandosi alle spalle un passato dai tratti insieme idilliaci e selvaggi, che si appresta ad abbracciare con entusiasmo il prorompente industrialismo dal quale nascerà l’America attuale. Da questo mondo in rapida e violenta trasformazione Anderson trae la sostanza di cui sono fatte le sue storie, che consegna alla pagina e ai lettori elaborando una prosa apparentemente semplice, premeditatamente spontanea, ben poco letteraria in senso classico. Una scrittura che, fin dagli esordi, mostra una straordinaria capacità di raccontare la realtà senza ipocrisie e orpelli retorici, e che tuttavia non rinuncia al potere evocativo della parola. Quella di Anderson fu, a suo modo, una piccola rivoluzione e non stupisce dunque che i suoi racconti fossero considerati da alcuni contemporanei addirittura scandalosi, quando non proprio immorali. Nel solco da lui tracciato si mossero poi scrittori destinati a un successo ancora maggiore. Tutti figli di Sherwood Anderson, a loro modo. Figli tanto ingombranti, in alcuni casi, da condannare il padre a un oblio ingiusto.
Da dove deriva lo stile unico, sottile e ironico delle short stories di Anderson?

Domenico Lonigro: T.S. Eliot, nello celebre saggio Tradition and the Individual Talent, definisce la mente dell’artista in termini piuttosto efficaci: quelli di un deposito. Un grande magazzino nel quale l’artista – sia egli un poeta, un romanziere, un pittore… – accumula sensazioni, immagini, frasi o anche semplici grumi di parole che lì rimangono fino al punto in cui – così ancora Eliot – tutti gli elementi utili a formare un nuovo prodotto d’arte non sono finalmente presenti.

Ecco, poste queste premesse, bisogna innanzitutto dire che nei racconti di Anderson confluiscono tutti gli elementi – antropici e più latamente umani, in primo luogo, ma poi anche sociali, ambientali e paesaggistici – di una America preindustriale ormai al tramonto. D’altro canto risulta difficile, se non impossibile, rintracciare un’origine unica per quello che viene comunemente definito lo “stile” di uno scrittore, e di Anderson in particolare. Sarebbe forse più funzionale parlare di “scrittura” tout court: di una voce, per usare un altro termine abusato che purtuttavia possiede forse maggior diritto di cittadinanza nel caso delle opere di Anderson.

Perché se ogni scrittore che meriti tale definizione ha un proprio stile, una propria scrittura, una propria voce dunque, quella di Sherwood Anderson a maggior ragione si differenzia e si fa riconoscibilissima nel momento in cui la lettura dei racconti deve fare i conti col tono di pacata confidenza, con un umorismo tenue e sommesso, con una garbata reticenza che, mentre guarda all’intimità dei personaggi, lo fa sempre con estrema delicatezza.
Se, infine, vogliamo parlare in senso stretto di ironia, o meglio ancora di
humour, possiamo senz’altro dire che leggendo i racconti di Anderson – in specie quelli che raccontano la vita interiore di personaggi difformi e irregolari calati in un universo governato da leggi spesso impenetrabili – si ha l’impressione che l’autore avesse compreso appieno che la differenza tra il lato cosmico delle cose e il loro lato comico dipende da soltanto una sibilante. E qui parafrasiamo quel che Nabokov scriveva a proposito di Gogol, uno scrittore al quale Anderson è stato accostato in più di un’occasione.
Qual è il principale elemento che si rischia di perdere nella traduzione di Morte nel bosco e altre storie americane?   

F: Una massima celebre nel settore degli studi sulla traduzione afferma che “ogni traduzione è un tradimento”. Al di là dell’indubbia efficacia del gioco di parole, la frase possiede un insindacabile fondo di verità. Tradurre è tradire, senza ombra di dubbio, e nondimeno la nostra traduzione di Morte nel bosco e altre storie americane è stata guidata dalla volontà di rispettare fino in fondo e nella massima misura possibile le intenzioni originarie dell’autore. Dopo questa bella dichiarazione d’intenti, tuttavia, dobbiamo già fare parziale ammenda: il titolo originale della raccolta è infatti un altro. Quando fu pubblicata per la prima volta, nel 1933, l’opera si intitolava Death in the Woods and Other Stories: il tradimento, seppur minimo, c’è stato anche questa volta, ma possiamo spiegare tutto. Preferire l’aggettivo “americane” ad “altre” non è stato altro che una logica conseguenza: dei sedici racconti che compongono la raccolta, quindici sono di ambientazione americana e tutti, in misura maggiore o minore, manifestano evidenti legami col sostrato sociale, paesaggistico e culturale degli Stati Uniti di quegli anni. Anni tipicamente “americani”, poi, nell’immaginario europeo: parliamo di un periodo che spazia dai primi decenni del Novecento alla fine del Proibizionismo, un’epoca in cui gli U.S.A. si configurano come potenza mondiale, iniziando a porre le basi della successiva egemonia culturale, destinata a vacillare solo dopo la guerra in Vietnam.

Se invece vogliamo parlare di un singolo elemento che rischia di andare smarrito nella traduzione in italiano – e sulla salvaguardia di questo elemento si sono concentrati tutti i nostri sforzi – non possiamo non fare riferimento al tono di Anderson: a quella voce sommessa e ironica di cui dicevamo in precedenza, che sulla pagina si traduce in una certa reticenza di fondo sempre pronta ad affiorare, in uno sguardo compassionevole ma mai pietoso, in un senso dell’umano che costituisce a nostro avviso il nucleo fondante della sua narrativa. La necessità di preservare simili, inconfondibili qualità ha richiesto peraltro una delicatissima operazione di calibratura resa particolarmente ardua dall’ampia varietà di registri che Anderson si dimostra capace di toccare, specie in una raccolta particolarmente eterogenea qual è quella da noi tradotta.

Probabilmente, a muoverci più d’ogni altra considerazione nel nostro lavoro, è stato questo obiettivo: dare anche ai lettori italiani la possibilità di leggere i racconti di uno scrittore che dà prova di una sensibilità e di un’ampiezza espressiva non comuni.
Il fil rouge che unisce i sedici racconti tende a colpevolizzare o a essere indulgenti con vizi e virtù degli esseri umani?          

D: Come dicevamo, a tenere insieme i sedici racconti è senz’altro la qualità della scrittura: si è parlato a tal proposito di stile, di voce, di sguardo. Sono termini che si equivalgono, in una certa misura e fino a un certo punto, fatte le opportune distinzioni che non a caso sono state poste in premessa.

L’autentico collante dell’opera è rappresentato dalla figura dell’autore/narratore: quella di Sherwood Anderson in Morte nel bosco e altre storie americane è una presenza costante ma mai ingombrante. L’autore non travalica mai i confini della pagina pur essendo sempre o quasi sempre presente e ben riconoscibile, tanto che non sarebbe fuorviante parlare – per noi che l’abbiamo tradotto, certo, ma anche per i lettori – di un dialogo sempre possibile: tutto quel che c’è da fare è prestare ascolto, fare attenzione ai dettagli di cui si compone la scrittura di ogni racconto. Così facendo, oltre a narrazioni sempre godibili e a personaggi estremamente realistici, si entra in un rapporto attivo, quasi confidenziale, con l’autore e con le sue creature. È forse per questo che autori del pieno modernismo, come i già citati Faulkner e Fitzgerald, lo hanno riconosciuto come “padre”.

Un padre, Sherwood Anderson, dimostra tuttavia di esserlo soprattutto verso i suoi personaggi, quelli che altrove definisce i suoi “grotteschi”: donne e uomini osservati da vicino, sempre con delicato umorismo ed elegante compassione. Lo scopo di Anderson, d’altro canto, non è mai quello di esprimere espliciti giudizi morali; si dimostra anzi uno scrittore ben poco incline a separare nettamente vizio e virtù, bontà e cattiveria. Quel che più conta per lui è catturare e restituire al lettore le centinaia e centinaia di verità – tutte meravigliose e degne di essere raccontate – che ogni singolo essere umano porta con sé. Un autore simile, tanto curioso nei confronti dell’umanità, tanto pronto a indagarne le luci e le ombre senza mai distogliere lo sguardo, non può che invitare alla comprensione e, non da ultimo, alla presa di coscienza del destino ultimo che accomuna tutti gli esseri umani.


Consigliereste ai giovani la lettura di Sherwood Anderson?

F: Questa domanda da un lato ci coglie di sorpresa, dall’altro ci offre una possibilità.

La sorpresa nasce dal fatto di non aver mai pensato all’autore, e all’opera che abbiamo tradotto in particolare, come a un autore e a un’opera destinati a uno specifico pubblico di lettori. Certo, il titolo si pone fin da subito a un estremo dell’umana esistenza, prefigurando un evento tradizionalmente associato a età ben più avanzate di quella giovanile. Tuttavia, ecco che sorge la possibilità di identificare un punto di forza dell’opera nell’assoluta eterogeneità che la caratterizza. Morte nel bosco e altre storie americane è una raccolta di testi estremamente vari per personaggi, tematiche e suggestioni: se la morte domina indubbiamente, oltre al titolo dell’opera, anche quelli del primo e dell’ultimo racconto e le relative vicende rappresentate, la vita è invece celebrata in testi come L’inondazione o Un viaggio sentimentale. Vi sono racconti in cui centrale è la figura femminile – Come una regina, su tutti, ma anche Una donna raffinata, Un’altra moglie ed Eccola lì! Si fa il bagno, lei! – e altri in cui il fuoco della narrazione è al maschile: Il ritorno, La lotta, Un viaggio sentimentale. Non mancano poi né l’azione – La parola alla giuria offre in tal senso spunti che oseremmo definire cinematografici – né atmosfere più meditative, raggiunte anche grazie a un sapiente impiego delle descrizioni, come in Questi montanari.

Insomma, una raccolta così complessa e articolata, che rappresenta l’ultima opera dell’autore e per questo forse la più completa e senz’altro la più matura, probabilmente andrebbe letta a ogni età.

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