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(Leggo)

«Non prego che tu li tolga dal mondo, ma che tu li custodisca dal Maligno» Gv 17,11-19.

Custodia e cammino, libertà col vento in faccia e rischio, fiducia e scommessa su Dio. Un Dio semplice e al nostro fianco, sempre! (Prego, 1Cor 2,2)

Io ritenni di non sapere altro in mezzo a voi
se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso.

(Agisco)

Una preghiera per tutte le famiglie affinché vivano in concordia nonostante le difficoltà e che anche io sia di unità e di costruzione per tutti!

 

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Insegnare la felicità

di Riccardo Luna
 

Insegnare la felicità

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In un prestigioso liceo classico di Roma novanta ragazzi quest’anno se ne sono andati prima degli scrutini finali. “Troppa pressione”, la motivazione. Secondo gli studenti i docenti insegnano la competizione e non la cooperazione e prediligono l'addestramento all’apprendimento. Un’indagine ministeriale chiarirà come stanno le cose.

 

Qualcosa però si può già dire, in generale, non sul liceo romano. La scuola esce da tre anni difficilissimi e fondamentali: la Dad ha mostrato l’enorme ritardo digitale delle nostre scuole e anche tutti i suoi limiti. Questa crisi poteva essere l’occasione per ripensare la didattica: le materie, gli orari, i compiti a casa. Secondo diversi indicatori la scuola italiana è fra le più dure del mondo. Ha senso? E’ quello che serve per il futuro dei ragazzi? Possiamo cambiare qualcosa?

 

Non lo so, ma avevamo l’occasione per parlarne, per valutare e ripensare il momento più importante nella vita di una persona: gli anni scolastici. E invece non lo abbiamo fatto. Il risultato è la sensazione di aver perso qualcosa. DI essere tornati indietro. Se chiedete ad un ragazzo come è andata oggi a scuola, probabilmente vi risponderà parlandovi di verifiche, compiti in classe e interrogazioni. Voti e medie matematiche. Punteggi, come in un videogioco. Non di quello che ha imparato. Di una meravigliosa lezione. Di una scoperta che lo ha entusiasmato. 

Non siamo così ingenui da pensare che tutti i prof debbano essere come Robin Williams dell’Attimo Fuggente, ma nemmeno novanta studenti che fuggono in massa da un istituto sono una cosa accettabile. Vorremmo una scuola in cui ci si entusiasma nell’imparare perché è l’unica cosa che dovremo continuare a fare per tutta la vita per essere felici. 

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E tu, condividi la posizione?

E tu, condividi la posizione?
La complicata gestione della funzione che rende possibile sapere dove è l'interlocutore. Soprattutto nel rapporto con i figli
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Quando chiamavi qualcuno al telefono, prima che il telefono diventasse smartphone, non avevi bisogno di chiedere “dove sei?”. Era scontato. Il tuo interlocutore era a casa o in ufficio, e lo sapevi benissimo. Dipendeva dal numero di telefono che avevi chiamato. Oggi che i telefonini sono sempre con noi una telefonata ci può raggiungere ovunque e in qualunque situazione. Al punto che prima di “dove sei?” io chiedo sempre “ti sto disturbando?”. 

 

Con gli smartphone in realtà è possibile sapere sempre dove sta qualcuno attivando la funzione “condividi la posizione”. Questa cosa è particolarmente delicata nel rapporto genitori-figli. Nel senso che molti genitori pretendono di sapere dove si trova il figlio adolescente in qualunque momento: “Così se succede qualcosa, so dove venirti a prendere”, è la motivazione. La postilla è che sapere dove uno si trova non vuol dire sapere con chi sta e cosa sta facendo, insomma, l’autonomia del giovane sarebbe salva. E’ un ragionamento sensato.

Il mondo ci appare sempre più pericoloso e i ragazzi hanno sempre più libertà: “condividere la posizione” con i genitori è una minima precauzione. Ma ai ragazzi di solito non va: alcuni se la cavano facendo lo screenshot di posizioni concordate e lo inviano a richiesta; altri sfidano apertamente la pretesa. Fanno bene? E’ difficile rispondere ma ci provo. Quando ero un ragazzo i miei genitori non avevano alcuna certezza di dove andassi quando non ero a casa e per ore, a volte, non potevano telefonarmi. Eppure sono stati capaci di gestire l’ansia. E noi? “Condividere la posizione" mi sembra più un ansiolitico che uno strumento salvavita (non ricordo nemmeno un caso in cui questa funzione sia davvero servita a qualcosa). E’ una questione di fiducia: se non c’è, la tecnologia non può colmare quel buco. Ma costruire rapporti autentici con un adolescente è molto più complicato di condividere la posizione. 
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Il piano di pace

Il piano di pace
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La prima cosa bella di martedì 31 maggio 2022 è il piano di pace. A intervalli regolari, durante una guerra, sbuca qualcuno che ce l'ha, il piano di pace. È improbabile, ma è bello.

Per esempio, adesso. Putin, Zelensky, Biden, hanno chiaramente un piano di guerra. In compenso un tal Capuano ha un piano di pace. Che qualcosa non torni è evidente. Ma Capuano lo affiderebbe a Salvini. Che coinvolgerebbe il Papa spedendolo di qua e di là. Totò in Vietnam. Però, no. Basta la parola: pace. E anche: piano. Fate con calma.

Ci siamo cresciuti con i piani di pace per il Medio Oriente, ma almeno lì, dopo qualche piazzista degli spazi, sbucava il capo di una superpotenza, convocava le parti nella sua casa di vacanza e imponeva loro di stare buoni finché l'avessero rieletto o gli avessero dato un Nobel. Per la pace. Candidiamo Capuano.

 

Da bambini, se i genitori litigavano, lo stilavamo noi, un piano di pace. In quattro punti. L'ultimo era un regalo per il mediatore. Poi abbiamo capito che l'unico piano di pace per loro eravamo noi, la nostra esistenza, qualcosa che contasse più della prevalenza sull'altro e della stessa felicità dell'uno o dell'altro.

Ecco, bisognerebbe trovare quella cosa lì. Il sospetto è che uomini così siano andati talmente lontani da se stessi da non riconoscerla più.  

 

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(Leggo)

«Io non sono solo, perché il Padre è con me»Gv 16,29-33.

 

La prova cui Gesù fa riferimento, la croce, disperde i suoi, ma lui non resta solo, perché egli è dall’origine “con”.
Dall’origine egli è Dio, egli è nel “Co-essere” della Trinità. Il Padre è con lui, il Padre è da sempre con lui e nel grido dell’abbandono sulla croce, quando la “distanza” tra il Padre e il Figlio tocca la sua punta estrema, lo Spirito tenacemente testimonia il permanere della comunione tra i Due.

(Prego)

O Signore, il nostro legame con te ci purifichi
e infonda nel nostro cuore il vigore della tua grazia.

(Agisco)

Se divenissi io catechista?

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L'inverno delle startup

L'inverno delle startup
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Qualche giorno fa, uno dei più importanti investitori della Silicon Valley ha detto che per il settore tecnologico e in particolare per le criptovalute, è iniziato l’inverno; ma ha aggiunto di non spaventarsi perché, come è arrivato, l’inverno finirà. Per dimostrarlo, un altro ha annunciato di aver creato un nuovo fondo da 4,5 miliardi per investire nel settore.

L'immagine da Trono di Spade, questo "inverno delle startup", rende bene l’idea di quello che sta capitando a causa della guerra e della crisi finanziaria. In altri tempi, guardando i titoli azionari andare in picchiata verso il basso, avremmo detto che la bolla speculativa si sta sgonfiando, come accadde nel 2000. Ma rispetto a quel drammatico crollo, questa volta la speranza è che i fondamentali del settore siano più solidi; se così fosse saremmo davanti soltanto a una trasformazione esemplificata da una espressione mitologica: “Stanno sparendo gli unicorni, è il momento dei centauri”.

Gli unicorni sono le startup con una valutazione superiore al miliardo di dollari, una definizione coniata nel 2013 da un investitore che aveva creato una specie di classifica di tutte le startup del decennio che avevano raggiunto quel traguardo: erano 39, una media di 4 ogni anno. Qualche mese fa erano diventate più di mille, risultato di un'economia che per anni, con i tassi di interesse azzerati, ha iniettato denaro facendo schizzare le valutazioni delle startup destinatarie di investimenti importanti. Se prima i membri del club degli unicorni stavano in una stanza, adesso hanno bisogno di un teatro. Lo status di unicorno è diventato il sinonimo di successo, anche se quei valori sono slegati dal fatturato e dai profitti (molte startup di successo non fanno profitti per anni).

 

Ora quella stagione è finita, dicono: quello che conta è il fatturato sicuro, basato su contratti e abbonamenti. Con 100 milioni di dollari di fatturato una startup può definirsi un centauro. Ed è un ritorno ai fondamentali: come per qualunque attività economica, conta quanto vendi e non quanto si pensa che venderai.

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Si chiamano quasi tutte Irina

 
Alessandra Carnaroli mentre declama una sua poesia

Alessandra Carnaroli mentre declama una sua poesia

Con allegria di bambina cedo oggi questo piccolo spazio ad Alessandra Carnaroli, che in una poesia tiene quello che meditavo di scrivere nei prossimi sei editoriali e quattro libri – per fortuna di tutti, dunque, non lo farò. Questo del resto fa la poesia. Dice meglio, dice tutto. S’intitola “Si chiamano quasi tutte Irina”.

Mi dispiace per gli a capo, sostituiti nella prosa orizzontale da questo segno /.  Trascrivetela come si deve, se volete, in verticale: scrivere a mano aiuta a riordinare, capire, ricordare. Poesia: “L’Ucraina è vicina / e la bambina biondissima / che d’estate veniva / in spiaggia a Pesaro / dopo l’esplosione / della centrale nucleare / per prendere il sole / non ammalarsi di tumore / evitare di partorire / un mezzo muflone / chissà se è viva / se è finita anche lei / in una fossa comune / tanto si chiamano / quasi tutte Irina. / *le donne pagano sempre / il prezzo più alto / l’epilazione a luce pulsata / gli assorbenti / come bene di lusso / lo stupro di gruppo”.

Le Poesie di Carnaroli, che è nata a Piagge nelle Marche nel 1979, sono pubblicate da editori minori e maggiori. Quelle nelle edizioni minori sono tra le mie preferite, quelle nelle edizioni maggiori si trovano più facilmente – c’è del buono in ogni cosa, volendo. Per Einaudi è appena uscito “50 tentati suicidi più 50 oggetti contundenti”, trascrivo questa. Dal capitolo “50 suicidi”, dedicata immagino alla madre ma forse la proiezione è mia. “Di crepacuore mentre rileggo / appunti liste della spesa / ascolto messaggi vocali cosa / vuoi per cena / aprire casseforti e cassapanche / provare gonne di due taglie / più piccole / rifare uguali spezzatini / copiare come puntavi / sopra le orecchie i pettinini”.

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L’ultimo idillio

L’ultimo idillio
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La prima cosa bella di lunedì 30 maggio 2022 è l'ultimo idillio, quell'amore che ti capita dopo il mezzo secolo, oltre i due terzi di vita, come ai personaggi di André Aciman sulla High line a New York. Tutti conoscono questo autore per Chiamami col tuo nome. Io lo amo per Città d'ombra a cui debbo molte scoperte.

Ora, in una novella delicata e cinematografica, con due soli personaggi e pochi cameo, ha messo in scena l'innamoramento cauto ma inevitabile tra un avvocato e una psicologa, entrambi vicino ai sessanta. S'incontrano una mattina in tribunale, in attesa di essere chiamati a far parte di una giuria, da cui si fanno più volte scartare per potersi rivedere. Entrambi sono alla naturale fine corsa dei rispettivi matrimoni, le pile si sono scaricate, come capita. Tocca a lei spiegare quel che sta loro accadendo: "Per accettare di buon grado ciò che ora possiamo perdere in un baleno, e lo sappiamo bene, dovevamo arrivare a tanto così dal limite, dall'essere prosciugati".

Più leggi e più ti viene il desiderio di un'occasione del genere. Ma la cosa veramente bella, sai qual è? Ti è già capitata. E l'hai presa. 

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Inglese per tutti, tutti per l’inglese

 
 
 

La “lingua della Regina”, un passepartout in giro per il mondo

Ponte di collegamento tra tutto mondo, la lingua inglese viene considerata la migliore per la comunicazione internazionale.

È ormai più che rinomata l’efficacia della conoscenza linguistica della lingua inglese e ora che, usciti dalla pandemia, si potrà riprendere ad esplorare il mondo, può essere utile riscoprirne i vantaggi.

La “lingua della Regina”, grazie alla diffusione dell’impero coloniale britannico, è stata la chiave per abbattere la “torre di babele”.

Che si apprenda a scuola o che ne si faccia esperienza da autodidatti, è importante porre le basi giuste per essere poi capaci di sviluppare abilità che ci permettano di orientarci e comunicare ovunque.

Pian piano, a partire dalla generazione “millenial”, si sta diffondendo sempre più l’idea che, cominciare a masticare l’inglese sin dalla più tenera età, sia un ottimo metodo per formare menti modellate sul bilinguismo.

Al giorno d’oggi, nel sistema scolastico italiano, spesso non si dà l’importanza che si dovrebbe all’educazione linguistica inglese. Molte scuole italiane tendono a far maggior spazio alla parte teorica e grammaticale, piuttosto che a quella orale.

Per questa ragione, spesso si tende a impararlo attraverso mezzi alternativi ed indiretti come guardare serie tv e film in lingua originale, tradurre testi di canzoni o fare esperienza diretta con persone provenienti da altre parti del mondo.

Ad oggi ci sono molti mezzi per parlare con gente di altri paesi e mettere in campo le proprie capacità di comunicare anche attraverso improvvisazione.

Fare esperienza su un campo diretto è uno dei metodi migliori e più efficaci per entrare nel pieno di un’altra realtà culturale per comprendere appieno modi di dire e variazioni colloquiali che una determinata zona del mondo può presentare.

L’inglese è fondamentale anche nel mondo del lavoro. Vengono spesso richieste certificazioni linguistiche per entrare in quasi ogni campo professionale.

Tuttavia, quel che piace qui rimarcare è che la lingua inglese permette di vivere esperienze a tutto tondo, di immergersi in culture ed avventure che, specie per i più giovani, sono fonte di conoscenza, oggi, e un meraviglio ricordo domani.

Insomma, pare proprio il caso di dire: inglese per tutti, tutti per l’inglese!

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Nel profumo dell’erba bagnata

 
 
 

Benedicendo la pioggia che lava

Mercoledì scorso ho chiesto a qualche studente come stesse, aspettandomi una risposta positiva data l’imminente fine dell’anno scolastico. E invece il malumore dilagava. Perché? «La pioggia mette tristezza». Io invece ero felice avesse piovuto, perché la prima ondata di caldo è stata impegnativa e a tratti soffocante. Così adesso, mentre scrivo, mi godo il fresco che si innalza dalla vegetazione bagnata dall’ennesimo temporale notturno, con i suoi silenzi e i suoi profumi. Anche perché so bene che si tratta solo di una pausa da questo rovente, prematuro inizio d’estate.

Così, quel giorno a scuola abbiamo parlato del temporale, di che significato potesse avere, dalla parola al fenomeno. E sul finire di un anno scolastico impegnativo ci siamo ritrovati a condividere cuori simili e sensazioni comuni.

In realtà il termine rimanda immediatamente a qualcosa di temporaneo, di passeggero, tanto provvisorio quanto violento. Assomiglia a una reazione di rabbia, a un’esplosione improvvisa, come suggeriscono i lampi e i tuoni che lo accompagnano. “Temporale” si dice anche, in un linguaggio un po’ arcaico e spiritualeggiante, di un potere terreno, di beni sottoposti alla fugacità del tempo, opposti alle cose durevoli ed eterne. Eppure, quel giorno non ci siamo soffermati su questa accezione.

Abbiamo parlato della pioggia, del pluvere che porta in sé l’idea di scorrere, fluttuare, nuotare e galleggiare, dalla radice indoeuropea plav– o plu-. Abbiamo condiviso la necessità di imparare a lasciar andare le cose che non servono, di galleggiare sulle parole inutili, di imparare a nuotare nelle cattive acque delle mancanze, delle pretese, delle manipolazioni, delle autogiustificazioni, delle menzogne di chi è più instabile e inaffidabile di uno stesso temporale. Dove c’è acqua, poi, c’è di mezzo lo “scivolare”, un verbo instabile, contrario all’equilibrio, opposto al controllo che rincorriamo ogni giorno di cose, persone, attimi, della vita insomma. Eppure, scivolare a volte è salvifico, perché lo si può fare senza farsi male, con armonia e dolcezza, come se alla marcia frenetica del quotidiano si preferisse improvvisamente una danza scoordinata e divertente.

E farsi scivolare è ancora più importante: farsi lavare da un’improvvisa, imprevista, fresca pioggia di leggerezza; farsi pulire da incommensurabile meschinità, dietro le quali si perdono le migliori energie; farsi purificare dall’inutile sforzo di cambiare ciò che non può essere cambiato, di aiutare chi non vuole essere aiutato, di comprendere enigmi sfiancanti. Mollare la presa da responsabilità di cui ci siamo inutilmente caricati. Sperimentare il cambio di programma, l’improvviso, l’inaspettato. E cogliere le tracce di eternità nel profumo dell’erba bagnata e nelle pozzanghere che brillano al tramonto di un sole rinnovato. Perché, forse, ciò che è temporaneo ci insegna a non inquadrare l’eterno nella durevolezza e nell’ufficialità delle perfezioni, ma come possibilità dischiusa anche in una piccola goccia di pioggia non prevista.

Occorre, di tanto in tanto, prendersi una pausa e benedire la pioggia che interrompe le ondate, di caldo e di sciocchezze, scambiate per oro colato solo perché brillano alla luce del sole. «Io non ho ancora imparato a farmi scivolare tutto addosso. Ma meglio ruvida che viscida», diceva la grande Anna Magnani. Ed aveva ragione: difatti, non si tratta di diventare superficiali o incapaci di farsi scalfire. Solo di capire quando è il momento di fermare ciò che sta andando troppo in profondità senza meritarlo. Non tutto merita di restarci sulla pelle, di lasciarci un segno nella carne. E il temporale sa bene cosa spazzare via.

Quello che deve restare, resta. In una freschezza che fa bene, che dà la carica per le nuove ondate. Perché di certo non possiamo evitare né le calure che seccano e bruciano, né gli sbalzi di temperatura e di umore, né l’instabilità del tempo e delle persone. Ma possiamo imparare a cavarcela in ogni tempus. E a fare di un temporale una poesia per la vita.

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