La prima cosa bella di giovedì 2 giugno 2022 è battere Alcaraz, su qualunque superficie, in qualunque torneo. E farlo adesso, prima che cresca. O sarà troppo tardi. Diciamo che a tennis, oggi, da un certo punto in poi non sai per chi tenere. Sinner non ci arriva, non ancora. Federer non si vede più. Djokovic, facciamo che s'è perso in inverno. Nadal, mai stato il mio genere. Poi è sbucato Alcaraz e tocca fare quella cosa di per sé brutta che è il tifo contro. Ma è inevitabile.
Alcaraz è un bullo con la racchetta. Ha le espressioni e i gesti del più insopportabile del cortile. Il più forte e il meno gentile. Non lo tolleri quando tira mazzate, ma ancor meno quando fa la smorzata al terzo scambio che è come tirasse ogni rigore col cucchiaio. E quell'esultanza feroce a ogni punto conquistato. Già non capisco Sinner che guarda il coach cercando approvazione, ma questo è peggio.
Amo i giocatori gelidi, quelli che dopo un gesto straordinario fissano la terra sotto i piedi e ridono, ma dentro. Quelli che si divertono, non soffrono, guardano la palla scorrere insieme con la vita. Ma la colpa vera è di quello che ha girato la docuserie "Una squadra". Rivedo Panatta e penso che se incontrasse Alcaraz prima lo batterebbe, poi gli menerebbe.
A volte la raccolta in un unico volume di scritti brevi pur occasionali e apparsi su gionali vari, i cui temi a volte sono stati oggetto di conferenze e dibattiti diretti ad un pubblico più largo, si rivela uno strumento non secondario per individuare meglio le coordinate teoretiche che reggono i percorsi di ricerca intrapresi da alcuni protagonisti del pensiero filosofico-scientifico; ad esempio, fisici-filosofi del calibro di Ernst Mach e di Ludwig Boltzmann nei primi anni del ‘900 raccolsero le loro ‘lezioni popolari’ in volumi come L’evoluzione della scienza (trad. it. Milano, Ed. Melquíades, 2010) e Populäre Schriften, testi che si sono rivelati strategici non solo ai fini di una loro migliore comprensione critica, ma anche forieri di idee poi diventate centrali nei dibatttiti epistemologici successivi sino a portare allo sviluppo stesso della filosofia della scienza come disciplina autonoma. In campo filosofico e più vicino a noi si è distinto Nicola Abbagnano, filosofo salernitano noto per il suo manuale di Storia della filosofia ancora largamente in uso, che prima nel 1968, nel volume Per o contro l’uomo e poi nel 1973 nell’opera Fra il tutto e il nulla, fa confluire, con una illuminante prefazione sul senso più autentico e più profondo del suo esitenzialismo positivo e neoilluministico, gli articoli apparsi nell’arco di vent’anni sul quotidiano «La Stampa».
Tutto ciò aiuta a capire meglio la raccolta di quasi due anni di scritti simili di Mario Castellana, esponente di quella che già negli anni ’80 Ludovico Geymonat ha chiamato ‘scuola meridionale di epistemologia’ (Bruno Widmar e la ‘Scuola meridionale di epistemologia’, 1 aprile 2021) per i contributi dati ad una maggiore conoscenza critica di figure di filosofi della scienza francofoni e di Federigo Enriques in particolar modo, figure in questi ultimi anni al centro di un rinnovato interesse da più parti; come viene detto nell’avvertenza, alcuni di questi scritti chiaramente rielaborati e su invito di Mauro Ceruti, autore della relativa prefazione, sono stati riuniti nel volume Briciole di complessità. Tra la rugosità del reale (Roma, Ed. Studium, 2022) dopo che sono apparsi nella rubrica di Odysseo ‘Tra la rugosità del reale’, significativa espressione tratta da Simone Weil. Questa particolare figura del variegato mondo culturale francese del primo Novecento è stata oggetto da parte dello stesso Castellana di un precedente volume come Mistica e rivoluzione in Simone Weil del 1979 e di altri studi successivi incentrati sull’immagine della scienza e dell’universo matematico in particolar modo, nel suo incontro-scontro con le idee del fratello André, uno dei protagonisti di quel gruppo di matematici riunitisi sotto il nome di Nicolas Bourbaki negli anni ’30-’50, idee poi fatte proprie anche da Giulio Giorello (Giulio Giorello in cammino con Simone Weil, pp. 67-69) e da Paolo Zellini in La ribellione del numero del 1985 e La dittatura del calcolo del 2018.
Come sottolinea Mauro Ceruti nella densa prefazione, l’aver coniugato da parte di Castellana i costanti interessi per le poco note vicende dell’epistemologia francofona di orientamento storico con il percorso di vita e di pensiero di Simone Weil è lo strumento ermeneutico più adatto da tenere presente per capire l’unità teoretica di fondo che sorregge Briciole di complessità, nutritasi dei “fili rossi dell’epistemologia francese del Novecento: la dimensione storica della scienza e la pluralità dei livelli del reale”, aspetto teorico già presente nel suo maestro Bruno Widmar e anche declinato come pratica di vita; essi ‘fili rossi’ nello stesso tempo per Ceruti “illuminano restrospettimente la navigazione” sin qui condotta e “lasciano intravedere in modo suggestivo nuovi percorsi” col fare risultare ben chiaro l’obiettivo di fondo della “intera sua opera come una profonda riflessione sulla vicenda storica attraverso cui la sfida della complessità emerge nella scienza del Novecento, e da qui deborda nell’inedita e globale condizione umana”. In tal modo si comprendono meglio gli intrecci che emergono al di sotto delle occasioni dovute ai diversi dibattiti in corso presi in considerazione e all’analisi di alcune opere apparse in questi ultimi tempi; e anche se i molteplici capitoli, alcuni dei quali dedicati a figure del passato come Leonardo Da Vinci, Keats e Leopardi e altre del Novecento, sono brevi, si rivelano molto funzionali per mettere sul tappeto nei loro risvolti teoretico-esistenziali alcuni concetti basilari relativi al paradigma della complessità per liberarli anche da interpretazioni a volte riduttive.
Non a caso Mauro Ceruti sottolinea il fatto che “con tanti suggestivi esempi qui trattati in brevi racconti”, si entra nel variegato universo della complessità col farcelo sentire un terreno fertile da arare sempre di più, visti gli angoli ciechi a cui certa modernità è approdata; e con parole dello stesso Castellana si riesce così a fare “un salto nella coscienza generale, per sentire empatia con la complessità, al di là del campo scientifico” grazie alla presa in carico di suggestioni provenienti da diverse fonti come Paul Valéry, Federigo Enriques, Albert Lautman, Gaston Bachelard, Jean Piaget, Michel Serres e da figure femminili come Hélène Metzger e Simone Weil, tutte figure oggetto di precdenti studi. L’analisi dei loro contributi filtrata e, come dice Ceruti, soprattutto “sviluppata nella continua tensione fra le molteplici dimensioni del suo interrogare se stesso ed il suo tempo: filosofica, scientifica, esistenziale, etica, spirituale”, si rivela oltremodo proficua per rendere sul terreno, insieme teorico ed operativo, il paradigma della complessità un baluardo se non proprio un salutare ‘disinfettante’ contro ogni tentazione semplicistica sempre in agguato (pp. 97-100); anzi in un altro breve capitolo dal significativo titolo ‘Il sapore del pensiero’ (pp. 202-205), si insiste sulle modalità con cui meglio metabolizzarla, digerirla, ‘abitarla’ nel senso di Simone Weil per farla entrare con tutto il suo corredo concettuale ed esistenziale nelle nostre tortuose vite. Si rivela in tal senso emblematica e significativa la foto messa in copertina di un ulivo secolare pugliese, che trova le sue salde radici nel terreno, a sua volta frutto di combinazioni di fattori diversi, per poi svilupparsi in modo non lineare e contorto, nodoso in base ad una serie di eventi esterni sempre emergenti, che lo modellano magari condizionandolo, per poi continuare a produrre e a vivere in piena autonomia cooperando con altri alle leggi generali della vita.
Arricchiscono questa non comune ‘via’ verso la complessità le analisi dell’apporto del pensiero e dell’esperienza di vita di altri protagonisti presi in esame come Pavel Florenskij, Romano Guardini, Pierre Teilhard de Chardin, Raymond Ruyer, Gilles Châtelet, Raimon Panikkar, Alain Badiou, Edgar Morin, Dario Antiseri e lo stesso Ceruti; e per dare più voce a quelle che sulla scia di Edgar Morin vengono chiamate ‘le verità polifoniche della complessità’(pp. 63-66), non vengono tralasciati altri saperi, pratiche di vita e discipline dove esse prendono vita, come la biologia, l’ecologia, la filologia, la filosofia digitale, l’economia civile, la mistica, la liturgia, l’educazione, il vivere democratico, dove vengono intraviste quelle che Castellana chiama “altre manifestazioni del reale’. In Briciole di complessità non viene altresì trascurato il peso di figure come Giovanni Paolo II e Papa Francesco, figure oggetto anche di precedenti lavori, che in diversi scritti alcuni dei quali imperniati sulla scienza e la tecnica, hanno a loro volta indicato la necessità di fare i conti con le problematiche della contemporaneità non riducibili a schemi unilaterali e di praticare i rugosi sentieri della complessità con l’invito lanciato alle comunità pensanti a lavorare all’interno del pensiero stesso, a riformarlo dalle fondamenta anche perché, nel parafrasare da parte di Castellana un’espressione di Paolo VI, ‘si può morire per mancanza di pensiero’.
E questo è anche uno degli obiettivi non secondari di Briciole di complessità, obiettivo presente con diverse modalità in diverse figure prese in esame come Bachelard, Enriques, Lautman, Teilhard de Chardin, Hélène Metzger, Serres e Châtelet, le cui idee coniugate ed irrobustite dall’apporto del pensiero di Simone Weil insieme a quelle di Morin e Ceruti, hanno portato tale percorso ad essere in sintonia con iniziative simili oggi all’ordine del giorno nel più avvertito pensiero filosofico-scientifico; oggi si è alle prese con ulteriori sfide che richiedono un pensiero soprattutto in grado in primis di ‘non mentire sul reale’ e le sue ‘ infinite ragioni’, come ribadisce spesso Castellana che nel fare sue programmaticamente anche tali indicazioni weilliane e di Leonardo Da Vinci perviene ad una non comune via verso la complessità. Così, degli scritti occasionali si sono tramutati in delle precise piste di pensiero che fanno emergere in modo più chiaro le ragioni dei percorsi precedenti e nello stesso tempo mettono in primo piano, come afferma Mauro Ceruti, le ragioni per le quali Mario Castellana “è stato motivato ad intraprendere la sua ricerca” e cioè la “necessità di entrare nelle pieghe della complessità della vita” col darci così “una navigazione di singolare ampiezza”.
È uno dei film più attesi da qualche anno, lo stesso Cruise (tra i produttori) a causa della pandemia mondiale ne aveva rinviato l’uscita pubblica. Eccolo. Ben confenzionato, stessa colonna sonora tranne dei brani nuovi tra cui “Hold my hands” di Lady Gaga che è già un successo e si vocifera sarà candidato ai prossimi Oscar. Io non posso che giudicare questo “secondo” una grande, costosa e gloriosa americanata. Tutto quanto per decenza cinematografica e scenica ti aspetti possa non accadere, è in realtà in procinto di esplodere sullo schermo tra la pomposità della musica. Ti chiedi come mai tanti soldi e così poca intelligenza, ti chiedi dove siano quei pochi sceneggiatori seri e capaci (l’America ne ha è la terra dei sogni che si avverano in ogni arte).
Il primo Top Gun stesso era “tutto muscoli” e poco “anima” ma l’occhio vuole la sua parte e ha portato incassi stratosferici: è diventato subito un miracolo commerciale ed io stesso che all’epoca avevo poco più di 13 anni nel 1986, ci sognai sopra parecchio. Perché un pilota di F14 “tira” più di un bidello o di un ragioniere. Il giubbotto di pelle di Cruise pieno di toppe, lo produssero e imitarono, divenne il primo serio motivo di litigio con la mia famiglia: lo vendevano ma costava uno stipendio di mio padre. Mi accontentai di una imitazione, mia madre ne comprò uno al mercato settimanale e ci cucì sopra più toppe dell’originale. Cuore di mamma.
I miei figli a cui ho fatto vedere il primo, erano con me al cinema armati di coca e patatine. Io avevo il cuore di cinemaniaco in gola, temevo una delusione simile ad una pena d’amore. E solo chi ama il cinema può capirmi. Il cuore è andato deluso.
Salvo poche cose: mi ha quasi commosso l’abbraccio tra Val Kilmer e Cruise, anche nella realtà Kilmer è malato di cancro alla gola, in una delle poche scene di cui è protagonista: Cruise è una specie di umano immortale, Kilmer invece è realisticamente provato, invecchiato. Si salutano perché uno dei due sa che non avrà altri giorni. Si capiscono, si confidano, si vogliono bene.
E tutti gli altri minuti del film? Rimprovero a certo “cinema” che potrebbe sfamare metà Africa, il non essere capace di costruire sentimenti. È un piattume di pettorali, visi perfettamente rasati, divise lustre, bandiere che sventolano sempre pronte a coprire bare. Ma un attimo, ecco all’improvviso un angelo senza divisa, uno dei tanti personaggi, Jennifer Connely che è capace di parlare con gli occhi e di amare lo stesso uomo da 30 anni in silenzio, aspettando che il destino lo riporti nel bar che gestisce. Ha deciso di sposare l’uomo sbagliato, difatti ne è divorziata ed ha una figlia adolescente. Anche qui le scene in cui c’è lei sono un film a parte forse il più bello tra i due: ha costruito il suo amore per un pilota coraggioso ma un tantino immaturo e lo ha tenuto buono perché sa che è l’unica cosa che nei momenti difficili la aiuta a sopravvivere. Per Cruise/Maverick invece esistono solo gli aerei e la solitudine del volo militare. Grazie a lei però si sveglia, scopre di poter amare oltre che proteggere: c’è differenza, lui sa solo prendersi cura a distanza delle persone cui vuole bene, come il figlio del suo compagno di voli Goose morto tragicamente mentre lui pilotava durante una esercitazione decenni prima. Nella distanza ravvicinata è una frana, con la sua faccia scolpita tra il duro e il mortificato fa tenerezza. Ma non ha quasi 60 anni?
Tutto ricorda il grande “sogno americano” e i sogni aiutano ad attraversare la strada della realtà quotidiana. A cosa è servito? A svagarsi.
«Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io» Gv 17,20-26.
Il suo desidero incrocia la nostra libertà, la nostra fedeltà e il nostro cadere. Ma, nonostante tutto rimane e rimarrà integro questo suo desiderio per ognuno di noi: averci con sé nella gloria.
(Prego)
Ci illumini, o Signore, la tua parola
e ci sostenga la comunione al sacrificio
che abbiamo celebrato,
perché, guidati dal tuo santo Spirito,
perseveriamo nell’unità e nella pace.
(Agisco)
Le mie parole siano sempre di unione e di costruzione.
Oleh Psjuk, leader della Kalush Orchestra, con il trofeo venduto per oltre 800mila euro
Nelle lettere a Babbo Natale dei bambini e nei desideri delle aspiranti Miss “la pace nel mondo” è sempre sul podio dei desideri. Vorrei meno compiti e la pace nel mondo. Nel secondo caso: vincere questo concorso (implicito, non detto) e la pace nel mondo. Non credo che nessuno sano di mente abbia mai desiderato partecipare a massacri, torture, stupri di gruppo, violazione di bambini e cecchinaggio di civili. Capisco che il concetto “sano di mente” sia molto relativo, ma è per intendersi: se è necessario si muore combattendo ma non c’è niente di strano nel preferire la vita, meglio se non in un campo profughi.
La divisione in due fra pacifisti e non pacifisti mi pare perciò un’invenzione mediatica utile a semplificare e alimentare lo scontro. Non possiamo non dirci pacifisti, tutti. C’è poi un'altra attività degli umani, meno istintiva dell’istinto di sopravvivenza: mettersi nei panni degli altri. Prendere, provvisoriamente, il loro punto di vista. Penso al gesto dei musicisti della Kalush Orchestra che hanno venduto all’asta il trofeo vinto all’Eurovision. Ottocentotrentotto mila euro che saranno usati per acquistare tre droni da donare all’esercito ucraino. Il frontman della band, Oleh Psjuk, tornato nel suo paese per combattere all’indomani della vittoria canora ha detto di voler “far del suo meglio per aiutare l’Ucraina” e di sperare “che la gente non si abitui alla guerra”.
Forse anche Psjuk, col suo cappellino rosa (all’asta per la causa anche quello), alle elementari avrà disegnato una colomba e desiderato la pace nel mondo. Poi le cose cambiano, e ti riguardano. Quando le cose ti riguardano è facile che le convinzioni teoriche si trasformino in decisioni da prendere.
La prima cosa bella di mercoledì 1 giugno 2022 è la possibilità di vivere due volte. Come nel titolo di un delizioso film spagnolo visibile su Netflix. Con tutto quel che circola occorre una guida sicura per non buttare tempo. La funzione di suggerimento ora ha la scritta "Sorprendimi" e spesso ha quell'effetto: "Che roba è mai questa?".
E allora provate questa storia: un anziano professore di matematica comincia a non saper risolvere più il sudoku e gli diagnosticano l'Alzheimer. Trascina allora la riluttante famiglia (figlia, genero, nipote) in una estrema ricerca dell'amore perduto di gioventù. Una specie di Little Miss Sunshine in Navarra. Bei personaggi, molti sorrisi e quest'illusione di una seconda vita perché a volte sarebbe bello svegliarsi e aver dimenticato la precedente, o una gran parte almeno, e ripartire. Non reincarnarsi (se lo fai, sei semplicemente un altro), ma ri-vivere nei panni di se stessi, senza un passato però, senza sbagli da correggere o traumi da elaborare.
Come una serie antologica, che mantiene il titolo, ma è ambientata altrove, con una diversa colonna sonora e protagonisti che non sanno della stagione precedente. You, the sequel.
Fortuna vuole che le cose non stanno come ce le prospettano, altrimenti avremmo superato la fine e saremmo già in un limbo preso a “nolo” o, comunque, alieno alla realtà. Qualcuno si sfrega le mani e, già contento, si conta l’inimmaginabile… togliendo ai numeri le virgole e aggiungendo zeri a piacimento. Non importa se poi i conti tornano solo nell’immaginario a dare la sensazione di un bilancio positivo.
Quel che s’avverte dall’andazzo: è che il nostro scontento, in modo anomalo, non aiuta a farci “trovare” ciò che a noi non manca, ma talvolta lo rende così riduttivo, fino a farlo sembrare del tutto assente.
Ma non è che ci siano rimedi per entrare nella sostanza cerebrale per rendere ognuno di noi paghi dell’evidenza visto che, in sostanza, si viene il tutto a completare, a definire solo con la Morte, quando questa si presenta, con la falce, a mietere, a chiudere i rubinetti dei nostri dubbi e delle nostre speranze.
È vero che le ritorsioni imposte alla Russia si sono rivelate un puro fiasco, come pur vero che queste abbiano dato l’effetto contrario: come se il debitore che sta portando il saldo venga rapinato per strada dallo stesso creditore. Queste situazioni somigliano ai cani senza coda poiché, se l’avessero, ora sarebbero lì a mordersela.
Resta beffarda l’analisi fatta sul conto, ora su questo, altre volte su quello che io chiamo “vetturini a compiacenza” e che, a piacimento, lasciano appiedati i loro “passeggeri” a metà percorso. Lo faceva a Malta chi possedeva un vecchio autobus Dodge, in sfacelo: lasciato lì dagli inglesi, a dominio compiuto. Molti privati, accaparrandoseli, ne avevano fatto un uso, a dir poco, temerario. Per i passeggeri, viaggiare su quei mezzi, malgrado la velocità ridotta, era come trovarsi tra il dubbioso e l’incerto. In prossimità delle fermate, il mezzo rallentava ulteriormente e chi doveva scendere o salire lo faceva a proprio rischio, con un oplà, sul marciapiede, laddove ce ne fosse stato uno allestito.
E non dico durante le discese a motore spento, dove si auto-inibivano in toto i controlli del mezzo, al solo scopo di risparmiare diesel. mentre in salita, col motore boccheggiante, qualcuno doveva rinunciare alla corsa con un oplà. Ma erano sempre quelli del posto a farlo: ben allenati. L’uomo, prima o poi, si adatta alle più sconce situazioni per sopravvivere. Un vecchio detto napoletano afferma: –L’italiano se fa sicc, ma nun more. Ma si pensa che questo detto sia riferito all’uomo in genere e non solo agli italiani, dal momento che chi scrive ne ha visti dipartire tanti stranieri che erano grassi e pieni di risorse…ahimè che non han potuto consumare, poiché sono deceduti lasciando il tutto ai posteri. Chissà cosa succederà a dissidio chiuso e al congedo degli intrusi che se ne torneranno a casa, coi micidiali mezzi sparsi alla mercè del primo che capita…altro che Malta!
Continuare a mischiare il nulla col niente per ottenere una negatività assoluta è come mettersi ad asciugare le lacrime alle prefiche a pagamento, levandole l’apparenza del dolore artefatto e l’interessato compenso …
Gli sbalzi generati con passi falsi han reso le mete da raggiungere, utopiche, verso vegliardi fini “déjà vu”.
Pure alle evidenze vien data una mano di vernice opaca per farle sembrare quelle che non sono. E che dire delle chiacchiere coi tanti sabbelbüddel (termine amburghese per dire chiacchierone, rompiballe) mascherati da intellettuali che fanno la pantomima ai pappagalli cenerini coi loro ridotti, spiritosi… accomodanti vocabolari? Tireremmo un bel respiro di sollievo, qualora gli chiudessimo la bocca, inalando col naso, dal momento che non lo usano più per avvertire le puzze delle loro stesse menzogne. Pure alla Giustizia le han rubato piatti e pesi tanto che va a avanti a testa o croce…
L’America si guarda bene di proseguire colle promesse di “aiuti” agli ucraini, dopo aver svuotato interi magazzini mentre continua a dirgli: – Andate avanti voi che, a noi, ci scappa da ridere…!
Come abbiamo fatto noi, ahimè, col Cristo, mandandolo al supplizio senza motivo alcuno. Oggi si rinnova la Storia, dopo la Sua Risurrezione, l’Ascensione in cielo, tra bombe, mortai, razzi e diavolerie umane: pronte a rimetterlo in croce più di prima.
Accusare i dolori dell’altro e vestirsi da “mistici” significa essere dei veri paraculi e non solo, ma sadici e maligni, altro che cristiani!
Io non so con quali armi sarà combattuta la Terza guerra mondiale, ma so che la Quarta sarà combattuta con pietre e bastoni (Albert Einstein).
L’egualitarismo ed anzi gli egualitarismi, tra forma e sostanza storica, si tingono spesso di colori ideologici. Questi ultimi, purtroppo, non sempre tengono conto della coscienza e delle radici costituzionali del principio di uguaglianza, con il connesso divieto di diseguaglianze ingiuste, e con il conseguente divieto d’irragionevoli disparità nel trattamento delle persone, nell’accessibilità alle risorse, nonché nella stessa vivibilità in società.
Per capire il senso storico dei princìpi di eguaglianza formale e di uguaglianza sostanziale, sanciti nella Costituzione del 1948, è importante studiare i lavori preparatori dell’Assemblea costituente in riferimento all’articolo 3.
È stato osservato che mentre nell’articolo 2 sul principio di solidarietà sociale il costituente ha fatto riferimento al concetto di uomo, nel senso di essere umano, nel testo definitivo dell’articolo 3 sul principio di uguaglianza il costituente ha parlato di cittadino. Da un concetto universalistico si è scesi, così, nell’area linguistica tipica del diritto.
Nel primo comma dell’articolo 3 è stato costituzionalizzato il principio di uguaglianza formale. È stato riconosciuto costituzionalmente che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, “senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Oggi il senso comune del progressismo politico e giuridico preferisce parlare di etnie, e non di razze.
Nel secondo comma dell’articolo 3 è stato costituzionalizzato il principio di uguaglianza sostanziale o materiale. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Interpretando in maniera evolutiva il secondo comma, i cittadini sono titolari della propria libertà e devono essere trattati con ragionevole uguaglianza, in quanto esseri umani. I cittadini sono considerati anche come lavoratori, in quanto titolari di posizioni dinamiche nella partecipazione all’organizzazione politica, sociale ed economica del Paese.
Nei lavori preparatori dell’Assemblea, il principio secondo cui la legge è uguale per tutti, sancito nel primo comma dell’articolo 3, è stato definito come “eguaglianza di diritto” ed al contempo è stato salutato come “eguaglianza di fatto” per il suo riferimento alla pari dignità sociale. Ai padri costituenti era chiaro che il secondo comma rappresentava lo sviluppo del primo. Le linee valoriali di tendenza non erano più incentrate sullo Stato liberale classico dell’Ottocento, ma erano delle linee evolutive, spostate in avanti sulla socialità.
Nel secondo dopoguerra italiano era avvertita l’esigenza di socializzare le libertà della persona, come singola e come associata all’interno delle diverse e plurime formazioni sociali.
Il relatore Lelio Basso, uomo della sinistra socialista e fondatore della rivista “Il Quarto Stato”, espose le visioni critiche verso una eguaglianza che rimanesse allo stadio di eguaglianza meramente formale. Il socialista Basso aveva infatti sostenuto quanto segue: “Non basta l’eguaglianza puramente formale, come quella caratteristica della vecchia legislazione, per dire che si sta costruendo uno Stato democratico. (…) L’essenza dello Stato democratico consiste nella misura maggiore o minore del contenuto che sarà dato a questo concreto principio sociale”.
Il concreto principio sociale a cui Basso si riferiva era quello di “eguale trattamento sociale”. A questa formulazione del principio, la maggioranza dell’Assemblea preferì la più umanista e meno statalista formulazione della “pari dignità sociale”.
Per quel che riguardava l’articolo 3, il presidente di commissione in Assemblea, Meuccio Ruini, aveva sostenuto posizioni di riequilibrio egualitario tra i sessi. Egli nella relazione al progetto ha sostenuto che “Il principio della eguaglianza di fronte alla legge, conquista delle antiche Carte costituzionali, è riaffermato con più concreta espressione, dopo le recenti violazioni per motivi politici o razziali; e trova oggi nuovo e più ampio sviluppo con l’eguaglianza piena, anche nel campo politico, dei cittadini indipendentemente dal loro sesso”.
L’onorevole Fanfani, favorevole ad adottare la formulazione della “pari dignità sociale” nell’articolo 3, aveva espresso il suo parere in Assemblea, dicendo che “Noi partiamo dalla constatazione della realtà, perché mentre prima, con la rivoluzione dell’89, è stata affermata l’eguaglianza giuridica dei cittadini membri di uno stesso Stato, lo studio della vita sociale in quest’ultimo secolo ci dimostra che questa semplice dichiarazione non è stata sufficiente a realizzare tale eguaglianza”.
In Assemblea ci furono intensi confronti e molte critiche anche sul dovere della Repubblica di rimuovere gli ostacoli economici e sociali. L’onorevole Epicarmo Corbino del Partito Liberale Italiano avrebbe voluto leggere nell’articolo 3 della Costituzione che “È compito dello Stato rendere possibile il completo sviluppo della persona umana”. Egli ha sostenuto quanto segue: “Che cosa significa rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale? Potrebbe significare eventualmente togliere qualsiasi ostacolo di ordine giuridico, economico e sociale, togliere allo Stato la sua natura di Stato. Se l’obiettivo che noi vogliamo raggiungere è quello dello sviluppo della personalità umana, affermiamolo”.
Assegnare alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli, economici e sociali, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona, nonché l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dell’Italia, non era una prerogativa soltanto socialista. Anche il pensiero liberale puro partiva dalla garanzia dell’uguaglianza formale, per promuovere l’uguaglianza materiale e le pari opportunità per tutte le persone. Il metodo liberale puro curava la socialità politica senza l’ausilio dei feticci collettivistici della statolatria. Il metodo liberale autentico voleva preservare le libertà individuali durante ogni percorso istituzionale di riformismo sociale e popolare. Il fine sociale della rimozione degli ostacoli non poteva (e non doveva) essere realizzato con i mezzi della repressione illiberale degli individui.
Sulla questione dell’articolo 3, in dottrina è stato osservato che l’uguaglianza si è resa storia, legandosi all’affermazione di concreti diritti costituzionali.
Negli anni Quaranta, durante i lavori dell’Assemblea costituzionale il socialista Lelio Basso auspicava una formulazione del principio di uguaglianza che andasse oltre il semplice formalismo giuridico. Il carattere democratico della Repubblica, secondo Basso, non avrebbe potuto essere veramente tale fino a quando l’articolo 3 non sarebbe stato realizzato, e quindi fino a quando non sarebbero state eliminate le disuguaglianze economiche e sociali.
Secondo un autorevole orientamento di dottrina, l’uguaglianza costituzionale consisteva anche nell’impegno della Repubblica a “rendere eguali o più eguali i soggetti, riducendo le asimmetrie potestative, economiche, sociali e culturali fra i suoi membri”.
La strada per l’eliminazione delle ingiustizie sociali ed economiche non è mai una strada lineare, e il successivo crollo delle ideologie politiche ha conferito alla scienza giuridica un carico maggiore, anche nella gestione delle aspettative di benessere sociale raggiungibile da ciascun individuo, in relazione ad ogni specifica situazione temporale ed ambientale.
La “storia di lotta di classe” si è fatta storia di equilibri pragmatici, che sappiano tenere insieme nel migliore dei modi i fondamentali valori costituzionali della libertà e della uguaglianza. Nella crisi di valori politici degli anni Dieci e degli anni Venti del ‘900, la profondità e la franchezza dialettica dei politici non politicanti d’allora, ci appare autorevole. Al di là di ogni rischio d’anacronismo politico, rileggendo i lavori preparatori sull’articolo 3 della Costituzione repubblicana ancora oggi abbiamo l’opportunità realistica di edificare un metodo di valori ideali ma concretizzabili, senza sventolare facili bandiere ideologiche.
L’uguaglianza che fece l’Italia si spogliò dei semplicismi dell’egalitarismo tradizionale. Gli Italiani che faranno l’uguaglianza del futuro si armeranno culturalmente di una pazienza riformista, a socialità liberale: tra libera accessibilità all’impresa e mercati aperti, disponibili all’inclusione di ogni meritocrazia.
Al principio? Forse il caos, al di qua della ragione: al di là di ogni ragionevole speranza.
Al fine (ma mai alla fine)? La socializzazione delle plurime speranze, e dei loro mezzi di realizzo; possibilmente.
A meno di un mese dal X incontro mondiale delle Famiglie a Roma (22-26 giugno 2022), a sei anni dalla promulgazione del Motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus (MIDI), con il quale papa Francesco ha riformato il processo canonico per le cause di dichiarazioni di nullità matrimoniale e a 5 anni dalla pubblicazione dell’Esortazione apostolica Amoris laetitia, con cui la comunità cristiana è sollecitata a vivere una nuova “forma ecclesiae”, che è quella della parabola della pecora smarrita (cfr. Lc 15,4-7) tutta “in uscita”, in cammino, che si mette in gioco per ogni situazione umana, cercando di discernere la volontà del Signore e di intercettare le esigenze e le difficoltà delle famiglie di oggi, si pone all’attenzione dei lettori una riflessione/testimonianza di don Ferdinando Cascella su AL in rapporto all’accompagnamento e discernimento pastorale e giudiziale.
Preme evidenziare che con i due testi pontifici (AL e MIDI) Francesco ha voluto dare origine ad un nuovo approccio giuridico-pastorale spronando la chiesa e gli operatori pastorali e della giustizia a perseguire due obiettivi: a) inserire pienamente la prassi giudiziaria nella dimensione pastorale (cfr. AL 244 e MIDI, art. 2-4 Regole Procedurali); b) rendere più accessibili ed agili le procedure per il riconoscimento dei casi di nullità.
Alla luce di questa breve premessa è apparso opportuno, al Servizio diocesano per l’accoglienza dei fedeli separati dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie condividere una testimonianza di un sacerdote, in merito ad AL e alla consulenza pregiudiziale o pastorale, che costituisce una delle novità della riforma ancora sconosciuta e poco applicata. A tal riguardo, la risposta di ricezione nelle diocesi italiane, di tale istituto canonico, appare ancora poco conosciuto: esistono esperienze virtuose e consolidate in alcune diocesi del nord (si veda Diocesi di Milano e Bergamo), molto meno nel sud, dove tra le esperienze significative si pone quella del Servizio diocesano dei fedeli separati dell’Arcidiocesi di Trani-Barletta-Bisceglie. La riflessione di don Ferdinando (parroco della Parrocchia San Lorenzo in Bisceglie e Direttore dell’Ufficio missionario della diocesi) che si pone all’attenzione dei lettori, vuole aiutarci a comprendere l’importanza del servizio ecclesiale, tanto auspicato da Papa Francesco, e i suoi rivolti non solo giuridici ma soprattutto pastorali.
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Era il 19 marzo 2016, il Papa, Francesco, firmava l’Amorislaetitia. La mole contenutistica e il clima che si era venuto a creare, faceva presupporre di trovarci di fronte ad un librone in lingua “ecclesiastichese” di difficile comprensione e, ancor di più, di attuazione. Poi il capitolo ottavo, i paragrafi 291-312: Accompagnare, discernere, integrare le fragilità: il rischio della freddezza di un diritto senza carità, di un progetto senza passione e di un «logos» senza «sophia» è scongiurato.
All’indomani un po’ tutti si sono chiesti cosa sarebbe cambiato nella vita pastorale con l’Amorislaetitia, anche se, a mio parere, per comprendere questo bisogna prima capire se, ed eventualmente cosa, è cambiato con Evangelii Gaudium. Forse, è la consapevolezza, serena ma anche inquieta, che senza il cambiamento la Chiesa diventa un museo e la distanza tra le sue parole e la vita concreta degli uomini aumenta tanto da non potere essere colmata. Chi si accontenta di essere depositario di qualche verità senza che queste arrivino al cuore degli uomini tradisce le verità, non le difende. Per questo ritengo sia bene partire dall’Evangeliigaudium per comprendere la prospettiva dell’Amorislaetitia.
A seguire, il 25 novembre 2016, l’Arcivescovo Pichierri pubblica la Lettera pastorale “In cammino verso la pienezza dell’amore”con la volontà di «proporre alcune indicazioni per comprendere e recepire al meglio in diocesi l’esortazione apostolica di papa Francesco, e per incentivare la pastorale familiare che ho segnalato come priorità da coltivare».
La Lettera pastorale, nella seconda parte, illustra alcuni orientamenti pastorali offerti alle comunità parrocchiali che si trovano ad affrontare particolari situazioni di fragilità, consapevoli di essere «facilitatori della grazia, annunciatori del “primato della carità” come risposta all’iniziativa dell’amore gratuito di Dio”».
Nell’alveo e nello spirito di queste indicazioni è, così, nato il Servizio Diocesano per l’accoglienza dei fedeli separati, importante e prezioso strumento di confronto e supporto col quale diverse volte mi sono interfacciato, nella persona del Vicario giudiziale don Emanuele Tupputi, e la cui funzione ritengo essere la giusta trama per un discernimento fatto a più voci. La puntualità, la celerità con cui ho avuto modo di veder condurre certe operazioni, credo sia un segno di attenzione e serietà che contribuisce non poco alla serenità dei fedeli separati, in cerca di fiducia prima ancora che di sistemazione.
Più di uno, nelle trafelate discussioni di confronto di esperienze pastorali, a proposito dell’Amorislaetitia, ha parlato di disorientamento. Nella mia esperienza di parroco, diverse volte mi sono imbattuto nella gestione di situazioni cosiddette “irregolari”, di fragilità, di storie dove più volte è venuto fuori il presentimento di sentirsi figli di nessuno, racconti che, se per alcuni palesavano un chiaro intento di strumentalizzazione della Grazia di Dio, per altri grondavano della sofferenza di non potersene nutrire.
La lettura dell’esortazione apostolica mi ha decisamente trasmesso la responsabilità di accostarmi alla vita delle persone non classificandole attraverso schemi ideologici o norme astratte, ma ascoltandole, interpretando la loro situazione concreta e il loro desiderio di Dio.
Tra le tante suggestioni che l’Amoris laetitia mi ha consegnato, senza dubbio vi è l’azione peculiare del discernimento, che si presenta complessa per la propria vita e, ancor più, quando la si deve applicare per la vita degli altri. La tentazione della logica del “tutto bianco o tutto nero” è molto forte ed è insufficiente per “leggere” davvero l’esistenza nella sua complessità. Certo, sarebbe tutto più facile evitare la fatica di cercare e di interpretare le cose in profondità, accontentandosi di soluzioni facili e comode; tuttavia, sia nella vita quotidiana che nella fede, ci accorgiamo che esistono molte “zone grigie”, situazioni che non possono essere incasellate rigidamente nel “o bianco o nero”. Ritengo che il discernimento è, appunto, l’arte di vedere, con gli occhi della fede, come lo Spirito Santo si trovi spesso all’opera anche in situazioni di vita complesse o apparentemente lontane da Dio, per cogliere tutte le possibilità umane, spirituali e pastorali, rimanendo sempre dentro il fiume della Chiesa.
Le situazioni di irregolarità rispetto alla realtà coniugale del Matrimonio, rappresentano davvero una grande sfida che investe in particolare la formazione di ciascun pastore che abbia assunto la responsabilità dell’accompagnamento. Mi rendo conto quanto sia imprescindibile coltivare una equilibrata umanità di fondo, senza correre il rischio di assumere posizioni di rigidità o di distanza, anche per il timore di non saper gestire le quotidiane sfide del ministero. L’insicurezza, infatti, si sposa sempre con una certa inflessibilità. Con compassione e paterna vicinanza, è importante accogliere la storia di ciascuno, sapendo che ogni storia e ogni persona è diversa dalle altre, e che non esistono manuali o prontuari già fatti una volta, e diventare così capaci di proporre una fede e una vita cristiana fatta di relazioni, più che di regole astratte.
Cosa dire: l’Amorislaetitia…?
Nessun disorientamento… mi ha solo molto motivato…!
La nuova rubrica di Miky Di Corato per i lettori di Odysseo
La considerazione della massa nei tuoi confronti si plasma perfettamente sull’immagine social che riesci a crearti. Sono sempre più convinto, infatti, che la vox populi si rifaccia al giudizio che altre persone danno della tua persona. L’essere circondato da tanti amici offre agli altri conoscenti virtuali l’occasione di esprimere un buon giudizio sul tuo conto. E questo, inevitabilmente, ti aiuta a costruire sempre nuovi rapporti, con sempre maggiore facilità.
L’empatia che virtualmente traspare si riverserà, inevitabilmente, nell’inconscio di chi osserva, creando l’illusione di conoscersi da sempre, anche se l’unico vero elemento di contatto è un like o un commento, la trade union che cela l’inganno di essere aggreganti e carismatici.
Potrei, metaforicamente, paragonare questa condicio a quella materialistica di un uomo in difficoltà economica: nessuno lo aiuterà, anzi, se potessero gli darebbero tutti il colpo di grazia. Per un uomo ricco, invece, tanti si prodigheranno ad aprirgli porte e acquiescente reverenza.
La kalokagathia personale dovrebbe essere un valore da apprezzare anche, e soprattutto, nella solitudine, perché, parafrasando i Pooh, un uomo può essere solo per svariati motivi e garantirgli compagnia in quei momenti vi alleggerirebbe dalla vox populi elevandovi alla vox Dei.