La porta si chiuse con un lieve clack, attutito dal tappeto dell’ingresso. Il crepuscolo era appena calato, e l’appartamento la accolse nel suo abbraccio silenzioso. Una luce calda filtrava dalle lampade d’ambiente, accese su timer, disegnando riflessi dorati sul parquet lucido, come se il sole si fosse rifugiato lì, in quell’angolo di quiete. L’aria sapeva di legno antico, di pulito e di peonie rosa e bianco latte, immerse in un vaso di cristallo che troneggiava sulla consolle. Accanto, un fascio ordinato di posta, quasi anche che la quotidianità sapesse di dover attendere.
Lei appoggiò le chiavi nel piattino di ceramica smaltata, con un tintinnio lieve. Poi si specchiò. Non per vanità, ma per ritrovarsi. Era un gesto che faceva ogni sera: uno sguardo a se stessa per dire "ciao, che giornatina anche oggi, ci sei ancora!" Il volto era leggermente arrossato dal freddo, le labbra morbide, screpolate appena. Gli occhi, color del cielo invernale, erano acquosi e profondi, stanchi dalle ore al pc, sì, impigliati anche ad un pensiero che non si era mai del tutto spento. Era bella davvero, senza saperlo fino in fondo. Una bellezza viva, senza trucco né teatro, che nasceva dalla sua pelle chiara, luminosa, da quella grazia inconsapevole che le abitava il corpo.
«Ciao, amore mio...» sussurrò, piegandosi a salutare il suo gatto. Il certosino dagli occhi ambrati rispose con un mrrr vellutato, strofinandosi alle sue caviglie nude. Lei lo prese in braccio, affondò il viso nel suo pelo denso, lo baciò finché le sue fusa non divennero un canto liquido. La soddisfazione di entrambi finì in una ciotola di croccantini ben ripulita e una carezza insistita dietro alle orecchie. Il gatto, placido, si acciambellò sul divano per leccarsi le zampe con movimenti rituali e solenni.
Lei si spostò in soggiorno. L’impianto audio attendeva solo un gesto. Con un tocco leggero, scelse un vinile: Chet Baker Sings. Il fruscio caldo anticipò le prime note di I Fall in Love Too Easily. La tromba malinconica si diffuse come un respiro sulla pelle, accarezzando i muri, entrandole dentro. Si accese una lampada sul pianoforte. Il riflesso della luce danzò sul bicchiere di cristallo che intanto riempiva: un rosso rubino, denso, profondo, che odorava di bacche e nostalgia.
Si spogliò senza fretta. Ogni movimento era un rito. Il tubino nero, i collant, la lingerie fine... tutto scivolava a terra come foglie d'autunno, leggere e inevitabili. Restò nuda, statuaria e assorta, col bicchiere in mano, sorseggiando. Il vino le tinse le labbra, e lei lo assaporò con gratitudine, mentre osservava la città oltre la grande porta-finestra. Il suo riflesso, sospeso in mezzo al buio e alla luce, pareva dipinto in un quadro di Hopper: sola, sì, ma piena. Vibrante. Padrona.
Si sentiva viva. Intatta. Intensa. Una donna integra ed intera. E ora libera. Una solitudine scelta, costruita giorno dopo giorno, come un giardino segreto.
Non ho bisogno di niente, pensò, e un fremito le attraversò la schiena.
Eppure... se esistesse qualcuno simile a lei al mondo, avrebbero potuto combinare qualcosa di piacevole insieme. Qualunque cosa in due e quel vedersi fin dentro. Come vedeva lei. Veramente!
Si scorse riflessa nei fianchi stretti e ossuti che le disegnavano curve delicate, nei seni pieni e alti che sembravano custodire segreti e promesse. Le gambe affusolate si mossero appena nel vetro con l'eleganza di una statua viva. Si raccolse i capelli, le braccia disegnarono un arco perfetto, lasciando che una ciocca ribelle le accarezzasse la tempia. Le spalle sottili, dritte, raccontavano fragilità e forza insieme. Un equilibrio raro.
Attraversò la casa a piedi nudi, lasciando impronte leggere sul pavimento freddo. In bagno, accese una dopo l’altra le candele color crema alla vaniglia, all' ambra, alla fava tonka. Il loro profumo si mescolò al vapore. Si guardò allo specchio. Si piacque. Si riconobbe.
Era stata tollerante per amore lei, sì. Intransigente con sé stessa. Ma ora, ora era sua.
L’acqua scrosciava nella vasca, e il vapore cominciava a salire, lento come un presagio. Si immerse con grazia millimetrica, lasciando che il caldo la accogliesse come un amante esperto. La spugna naturale scivolava sulle braccia, sulle cosce, lungo le caviglie, risvegliando la carne e placando la mente. Ogni gesto era un ritorno: a sé, al proprio corpo, a una donna che finalmente si acquietava.
Il bicchiere era lì, il vino ogni tanto le bagnava le labbra e la voce del jazz le accarezzava la pelle con le sue dita invisibili. Chiuse gli occhi. Sorrise. Era tutto o quasi al suo posto anche quella sera.
Quando il vinile finì, si alzò. Gocce le correvano lungo la schiena, si perse un attimo nella loro scia. Si avvolse nell'accappatoio caldo, i capelli stretti in un turbante morbido. Mise su I Put a Spell on You. Nina Simone entrò nell’aria come una magia antica. Il ritmo era incantatorio, sensuale, inevitabile.
La pelle era tiepida, profumata. I capelli bagnati le scivolavano sul collo. Tornava in soggiorno, il calice tra le dita, quando il campanello suonò.
Sorrise, ecco la sua pizza.
Aprì. No. Era lui.
Due stagioni. Due eternità. Un pezzo di vita parso così lungo che neanche il tempo bastava a contenerlo.
La porta tra loro, sembrò carica di tutto ciò che non si erano mai detti.
Lui entrò. E chiuse.
Camicia sbottonata, giacca blu, jeans, scarpe scure. Ma fu lo sguardo a parlare. Dentro, un’urgenza trattenuta, un dolore lucido, un desiderio sfinito.
Lei non si mosse. L’aria era densa. Nina cantava ancora, pareva sapendo tutto prima di loro.
Lui fece due passi.
E poi un altro.
La guardava come si guarda qualcosa che non si è mai smesso di amare.
Quando la sua mano le sfiorò la guancia, lei chiuse gli occhi. Il calice scivolò piano sul mobile, parve un’atto di resa.
Il bacio non chiese permesso.
Arrivò, da dentro, dalla pancia, dal cuore.
Le sue mani erano fredde, la pelle di lei calda. La cercava come chi ritrova la fede. Come chi ha perduto qualcosa di sacro.
E lei gli rispose con la pelle, con il fiato, con ogni battito.
L’accappatoio si sciolse. Nessuno lo fermò. Nessuno voleva farlo.
Made