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Cosa studiare per essere assunti in una startup

Cosa studiare per essere assunti in una startup
Su Italian Tech tutte le offerte di lavoro delle startup italiane aggiornate in tempo reale
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Stiamo entrando in una fase economica complicata, lo hanno capito tutti, e dobbiamo aggrapparci alle poche cose che ancora sembrano funzionare. Le aziende che assumono nonostante la crisi.

 

Da oggi su Italian Tech, in collaborazione con Cassa Depositi e Prestiti, pubblichiamo tutte le offerte di lavoro delle startup italiane aggiornate in tempo reale. Mentre vi scrivo sono più di mille. Mille posti di lavoro qualificati, ben pagati, in realtà giovani e dinamiche che stanno crescendo. Non fattorini per portare la cena a domicilio, insomma; o magazzinieri per movimentare i pacchi dei nostri acquisti online.  Per un giovane che abbia finito gli studi, quelle offerte di lavoro sono la situazione ideale.

 

Tra le professioni più richieste ci sono ovviamente gli sviluppatori di software, gli esperti di marketing digitale, ma nel database ci sono anche contabili, venditori e addetti alla comunicazione. Il ventaglio è ampio. Per alcuni posti è necessario stare in sede, per altri è richiesto di trasferirsi all’estero, dove la startup sta cercando di aprire nuovi mercati; per altri ancora è possibile lavorare da casa o da dove si vuole, secondo quella interpretazione estensiva dello smart working che prende il nome di remote working, lavoro a distanza. Più di mille posti di lavoro dall’ancora piccolo ecosistema startup nostrano sono tanti. Dimostrano che nonostante le difficoltà nel trovare capitali, in Italia stanno crescendo aziende solide. E indicano chiaramente una strada ad un giovane in cerca di un impiego: il principale problema non è la mancanza di lavoro, spesso è la mancanza di competenze adeguate. Ma per acquisirle basta studiare nei corsi giusti. Per questo abbiamo lanciato i master della Italian Tech Academy. 

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Dirlo in dialetto anche alla nonna

 
Le schede dei cinque referendumo su cui si è votato domenica. Nessuno ha raggiunto il quorum

Le schede dei cinque referendum su cui si è votato domenica. Nessuno ha raggiunto il quorum

Ha ragione Luigi Manconi quando dice che se fra i referendum ci fosse stato anche quello sulla depenalizzazione della coltivazione della cannabis il quorum ai referendum si sarebbe probabilmente raggiunto. Ma la Corte costituzionale ha bocciato quel quesito, inammissibile perché mal posto. Ricordo bene l’ironia che si è scatenata sull’incapacità lessicale dei promotori: non ci sono più i radicali di una volta, i nuovi non sanno neppure scrivere in italiano.

Ora: non sarà stato solo per questo, e certo da un punto di vista giuridico le domande sui temi di giustizia erano ben poste, tuttavia io non conosco nessuno – neppure tra persone molto ben informate per indole o per mestiere – che alla vigilia del voto abbia saputo spiegare a un vicino, a un amico, a un parente o conoscente di che cosa si trattasse. Certo l’ignoranza non scusa, per restare al linguaggio della legge, la responsabilità di chi non sa resta sua. Certo la campagna politica è stata flebile e quella mediatica impercettibile. E poi faceva caldo, si poteva andare al mare – per fare il verso a quell’antico invito.

Penso però che quando qualcosa tocca la sensibilità diffusa, se riguarda un tema che le persone riconoscono non c’è giro di parole che lo possa occultare. Si capisce sempre, qualcosa che davvero ci riguarda. La distanza tra il linguaggio della burocrazia e quello della strada è un falso ostacolo, se l’oggetto della domanda si può tradurre e riferire in dialetto anche alla nonna. L’uso dei referendum è uno strumento a doppio taglio. Abusarne, farne cartaccia è un rischio grande. Più di tutto, lo depotenzia non rispettarne gli esiti. Sull’acqua pubblica, per esempio, sappiamo come andò: nulla è mai successo.

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Le parole giuste

Le parole giuste
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La prima cosa bella di lunedì 13 giugno 2022 sono le parole giuste e quelli che si dannano per trovarle: una forma di rispetto per sé stessi, per la lingua parlata o scritta, ma non soltanto. Nel libro di Tove Jansson Il campo di pietra il vecchio giornalista dice al suo direttore: "Parole, milioni di parole che ho scritto per il tuo giornale, capisci cosa vuol dire aver scritto milioni di parole e non poter mai essere sicuri di aver scelto quelle giuste? E così si diventa silenziosi, sempre più silenziosi". Vuol dire bloccarsi al bivio tra una ripetizione e l'uso di un sinonimo, con la sensazione che solo la prima scelta sia efficace, ma possa irritare. Cercarla allora, quell'altra parola, ma dentro di sé, non con "Google-sinonimi", perché riesca naturale quanto la prima. Sapere che non ci saranno più reti: né editor, né correttori di bozze, nessuno che dia un'ultima occhiata. Senza filtri. Non confondere velocità con sciatteria (non sono sinonimi). Sentire una ferita rendendosi conto, più tardi, che si poteva usare una parola migliore. E smettere di rileggersi. Milioni di parole per diventare silenziosi. Tacere se non si hanno parole necessarie, utili a qualcosa o qualcuno. Portare rispetto al lettore, il più cortese tra gli estranei.  

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Dancin’ men

Dancin’ men
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La prima cosa bella di martedì 14 giugno 2022 sono gli uomini che ballano da soli, quando nessuno li vede, persone serie travolte da un improvviso desiderio di assecondare la vita. E’ un impulso che non ha spiegazione logica. Li vedi rigidi ai concerti, in discoteca non li vedi proprio, hanno bisogno del loro spazio e tempo e neppure loro sanno quando accadrà. Tornano da una lezione di filosofia del diritto, dalla chiusura del giornale di cui sono direttori, dal tribunale. Appendono la giacca. Esitano. Li ha fregati Norman Mailer con I duri non ballano, ma ha scritto anche altre cose sbagliate. Balla perfino Salvini, ma si pesta i piedi da solo. Gli altri invece rivelano inattesa eleganza, infantile allegria, sincronia con tutti i possibili tempi. Certo, c’è bisogno della musica giusta, perché questi di solito ascoltano Keith Jarrett o Leonard Cohen. Ma questa è la seconda sorpresa: non aspettatevi Let’s dance di David Bowie o Satisfaction dei Rolling Stones. Quando si scravattano lo fanno in ogni possibile senso. Esiste una playlist per duri che ballano. Se la passano. Nell’olimpo di hit parade: al numero 3 Don’t let me be misundesrtood dei Santa Esmeralda, al numero 2 Una vita in vacanza dello Stato Sociale e al numero 1 Get Lucky dei Daft Punk. State fermi, se ci riuscite. 

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donmichelangelotondo più di un mese fa

(Leggo)

«egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» Mt 5,43-48.

Gesù dice le cose come se fossero le più naturali al mondo. Gli uomini di fede amano, è risaputo.  Ma, in fondo, chi amiamo? Persone che ci stanno simpatiche, che la pensano come noi, che appartengono al nostro gruppo, che ci piacciono. In fondo amiamo coloro che ci amano, restituiamo un sentimento, magnifico! Esattamente come fanno tutti, anche coloro che non credono. Gesù è tagliente e destabilizzante mentre parla: cosa facciamo di straordinario se amiamo chi ci ama? Cosa c'è di eroico nel voler bene a chi se lo merita? Gesù ribalta la prospettiva: il discepolo è chiamato ad amare ogni uomo, nemico o amico.

(Prego)

Padre santo, custodiscili nel tuo nome,
perché siano, come noi, una cosa sola. (Gv 17,11)

(Agisco)

Coltivare la mitezza senza perdere il gusto della verità.

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Il partito del pistone

di Riccardo Luna
 

Il partito del pistone (reuters)

Siamo tornati ai tempi di quando arrivarono le prime automobili. E i maniscalchi erano preoccupati perché il loro lavoro presto non ci sarebbe più stato

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Quando arrivarono le prime automobili, i maniscalchi capirono che il loro lavoro presto non ci sarebbe più stato. L’opinione pubblica era divisa. Molti erano contrari a questi rumorosi oggetti a quattro ruote e alla fine il Parlamento inglese varò una legge che imponeva alla automobili di circolare a passo d’uomo: letteralmente, nel senso che dovevano essere precedute da una pedone con una bandiera rossa in segno di pericolo. Quella legge la chiamarono Red Flag Act e non ha salvato il destino dei maniscalchi.

Nel 2035

di Riccardo Luna
 

 

Né, a conti fatti, si può affermare che l'industria automobilistica abbia creato meno posti di lavoro di quella che prima ruotava attorno ai cavalli e alle carrozze. Anzi, ai tempi i più scaltri fra i costruttori di carrozze si convertirono alla costruzione di automobili. Questo aneddoto mi è tornato in mente leggendo i lamenti di un nostro ministro dopo la decisione del Parlamento europeo di fermare la produzione di automobili a benzina o diesel dal 2035. Ovvero tra tredici anni. Dice, il ministro, che rischiamo di perdere 70 mila posti di lavoro. Un dato non suffragato da alcuna seria analisi del comparto industriale; e che non tiene conto di quelli che invece verranno creati realizzando il piano verde dell’Europa: pensate agli impianti di energie rinnovabili con le quali sostituiremo la dipendenza dai combustibili fossili.

Il futuro del resto fa sempre questo effetto ad alcuni: fa venire voglia di tornare al passato. Di alzare una bandiera rossa in segno di pericolo. Ma qui l’unico pericolo è il cambiamento climatico. Il fatto che è andato così avanti che forse il 2035 potrebbe essere addirittura tardi. E invece la decisione dell’Europa è sacrosanta. Se nel governo italiano prevalesse il partito del rinvio vorrebbe dire che ai nostri figli un giorno diremo che non abbiamo fermato la fine del mondo perché dovevamo difendere chi costruisce bielle e pistoni. 

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Il partito del pistone

di Riccardo Luna
 

Il partito del pistone (reuters)

Siamo tornati ai tempi di quando arrivarono le prime automobili. E i maniscalchi erano preoccupati perché il loro lavoro presto non ci sarebbe più stato

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Quando arrivarono le prime automobili, i maniscalchi capirono che il loro lavoro presto non ci sarebbe più stato. L’opinione pubblica era divisa. Molti erano contrari a questi rumorosi oggetti a quattro ruote e alla fine il Parlamento inglese varò una legge che imponeva alla automobili di circolare a passo d’uomo: letteralmente, nel senso che dovevano essere precedute da una pedone con una bandiera rossa in segno di pericolo. Quella legge la chiamarono Red Flag Act e non ha salvato il destino dei maniscalchi.

Nel 2035

di Riccardo Luna
 

 

Né, a conti fatti, si può affermare che l'industria automobilistica abbia creato meno posti di lavoro di quella che prima ruotava attorno ai cavalli e alle carrozze. Anzi, ai tempi i più scaltri fra i costruttori di carrozze si convertirono alla costruzione di automobili. Questo aneddoto mi è tornato in mente leggendo i lamenti di un nostro ministro dopo la decisione del Parlamento europeo di fermare la produzione di automobili a benzina o diesel dal 2035. Ovvero tra tredici anni. Dice, il ministro, che rischiamo di perdere 70 mila posti di lavoro. Un dato non suffragato da alcuna seria analisi del comparto industriale; e che non tiene conto di quelli che invece verranno creati realizzando il piano verde dell’Europa: pensate agli impianti di energie rinnovabili con le quali sostituiremo la dipendenza dai combustibili fossili.

Il futuro del resto fa sempre questo effetto ad alcuni: fa venire voglia di tornare al passato. Di alzare una bandiera rossa in segno di pericolo. Ma qui l’unico pericolo è il cambiamento climatico. Il fatto che è andato così avanti che forse il 2035 potrebbe essere addirittura tardi. E invece la decisione dell’Europa è sacrosanta. Se nel governo italiano prevalesse il partito del rinvio vorrebbe dire che ai nostri figli un giorno diremo che non abbiamo fermato la fine del mondo perché dovevamo difendere chi costruisce bielle e pistoni. 

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Un libro di Paolo Maria Rocco celebra a Sarajevo Izet Sarajlić

 
 
 

Il poeta tragico della bellezza e dell’amicizia

Un ponte tra l’Italia e i Balcani”, tra due culture che si sono parlate e scambiate, e che gli avvenimenti degli ultimi vorticosi decenni europei hanno fatto correre il rischio di allontanare: anche per questa ragione ha un valore storico il libro “Izet Sarajlić per Sarajevo-Vita e Poesia” (Il Foglio Letterario ed., con il Patrocinio dell’Ambasciata d’Italia a Sarajevo) che Paolo Maria Rocco ha dedicato al ventennale della scomparsa di Izet Sarajlić, il più importante tra i poeti balcanici del Secondo dopoguerra. Una voce che tutto il mondo ha potuto ascoltare, in vita soprattutto, ma anche in morte.

Nell’evento tenuto a Sarajevo per la presentazione del libro, l’Ambasciatore italiano in Bosnia, Marco Di Ruzza -che ha promosso l’iniziativa insieme con il Museo di Letterature e Arti Performative di Sarajevo diretto da Sejla Sehabović- ha rilevato l’importanza complessiva dell’impegno che Paolo Maria Rocco dedica da diversi anni alla diffusione della cultura balcanica in Italia e alla costruzione di occasioni di incontro interculturale.

Il libro presentato a Sarajevo rappresenta una pietra miliare per il rilancio dell’attenzione internazionale intorno alla figura di un poeta e di un intellettuale al quale la cultura in lingua slava ha sempre guardato come alla sua stella polare. Il libro raccoglie una conversazione del curatore con Tamara Sarajlić-Slavnić, figlia di Izet, e una lunga serie di testimonianze inedite di intellettuali, poeti, artisti e filosofi italiani e balcanici, che hanno studiato l’opera di Sarajlić o che lo hanno conosciuto personalmente diventandone amici e spesso condividendone le esperienze esistenziali: Braho Adrović, Erri De Luca, Jovan Divjak, Silvio Ferrari, Predrag Finci, Ottavio Gruber, Miso Marić, Naida Mujkić, Josip Osti, Ranko Risojević, Vesna Scepanović, Giacomo Scotti, Emir Sokolović, Bozidar Stanisić, Stevan Tontić, Gabriella Valera, Silvio Ziliotto, Pero Zubac.

Ne emerge un dialogo fitto che unisce le due sponde dell’Adriatico in nome dell’amicizia e della poesia, in nome di un poeta che -scrive Paolo Maria Rocco-: «ha continuato a cantare la bellezza e l’innocenza della vita, in questo senso, ancora una volta, proprio come il soldato Ungaretti che accanto al compagno morto in trincea scriveva lettere d’amore; poesie, perché è la poesia l’ultimo baluardo contro le atrocità dell’uomo: ‘chi ha fatto il turno di notte perché non si arrestasse il cuore del mondo? Noi i poeti’, scrive Sarajlić».

Forse la poesia che segue -dedicata da Izet Sarajlić a suo fratello Ešo, fucilato nel 1942 dai fascisti italiani- e che qui si presenta nella traduzione di Rocco, può illuminare più di ogni altra parola il senso della ricerca del grande poeta:

“Ameremo per loro stasera./ Ce n’erano 28/ Erano cinquemila e 28./ Ce n’erano più di quanto ci sia mai stato amore in una poesia./ Adesso sarebbero padri./ Adesso se ne sono andati./ Noi che sulle piattaforme di un secolo abbiamo pianto/ la solitudine di tutti i Robinson del mondo,/ noi che siamo sopravvissuti ai carri armati e non abbiamo ucciso nessuno/ mia piccola grande/ stasera ameremo per loro./ E non chiedere se sarebbero potuti tornare./ Non chiedere se sarebbe stato possibile tornare indietro/ mentre per l’ultima volta/ rosso come il comunismo, ardeva l’orizzonte dei loro desideri./ Attraverso i loro non amati anni, pugnalato e in piedi, / è passato il futuro dell’amore./ Non c’erano segreti nello stare sdraiati sull’erba./ Non c’erano segreti nella camicetta sbottonata./ Non c’erano segreti nel giglio cadente da mani esauste./ C’erano notti, c’erano fili spinati,/ c’era il cielo guardato per l’ultima volta,/ c’erano treni che tornavano vuoti e desolati,/ c’erano treni, c’erano papaveri,/ e con essi, con i tristi papaveri di un’estate militare,/ con magnifico senso di fratellanza, gareggiava il loro sangue./ E sui Kalemegdan e sulle Nevsky Prospekt,/ sui Boulevard del Sud e sui Quays degli addii,/ sulle Piazze fiorite e sui Ponti Mirabeau,/ meravigliose anche quando non amano,/ Anne, Zoje, Janet hanno aspettato./ Aspettavano il ritorno dei soldati./ Se non fossero tornati/ avrebbero dato ai ragazzi le loro bianche spalle mai abbracciate./ Non sono tornati./ Sui loro occhi fucilati sono passati i carri armati./ Sui loro occhi fucilati./ Sulla loro Marsigliese interrotta./ Sulle loro illusioni trafitte. Adesso sarebbero padri./ Adesso se ne sono andati./ Ora al convegno d’amore sono le tombe ad aspettare./ Mia piccola grande”.

Il libro “Izet Sarajlić per Sarajevo-Vita e Poesia” è scritto in due lingue, italiano e bosniaco, ulteriore tappa di avvicinamento alla conoscenza di una cultura molteplice e ricca come quella che si esprime in lingua slava, che si aggiunge all’ “Antologia di poeti contemporanei dei Balcani” allestita e tradotta insieme con il poeta bosniaco Emir Sokolović (2019, LietoColle), un unicum nel panorama letterario in lingua italiana e slava, alla silloge “Bosnia. Appunti di viaggio e altre poesie” di Paolo Maria Rocco (Ensemble ed.) con testo a fronte in lingua bosniaca di Nataša Butinar, e che oggi registra la traduzione con proposta di lettura critica del libro dello scrittore e filosofo Predrag Finci “La stazione e il viaggiatore”, con le foto artistiche di Milomir Kovačević Strasni, per le Edizioni “Il Foglio Letterario” (2022).

Paolo Maria Rocco è poeta e narratore egli stesso, premiato in Italia e all’Estero. In un prossimo articolo presenteremo la varietà del suo impegno di ricerca letteraria, e della originale proposta poetica.

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donmichelangelotondo più di un mese fa

Vita da empatico

 
 
 

«Chi riconosce gli altri è dotto.
Chi riconosce se stesso è 
saggio.
Chi batte gli altri ha 
forza fisica.
Chi batte se stesso è 
forte.
Chi è 
soddisfatto è ricco.
Chi non perde il suo centro dura»

(Lao Tze)

L’empatia è educabile, è vero, però pensiamoci.

La vita di un empatico, in quattro parole e prima di capire che di empatia si tratta: una rottura di coglioni.  Una grossa, gigante, immensa ed  infinita rottura di coglioni!

Perché, francamente, a fare poesia o a dare definizioni elegantemente scientifiche, dopo aver fatto un percorso ed aver capito, siamo bravi tutti. Sì, occhei, più o meno tutti. Ancora? Va bene, più meno, che più. Diciamo che chi sa farlo, a conti fatti, vince facile. Vogliamo provare?

Empatia: in psicologia, la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo di un’altra persona. Nella critica d’arte e nella pubblicità, la capacità di coinvolgere emotivamente lo spettatore con un messaggio in cui lo stesso è portato a immedesimarsi.

Possiamo però alzarci oltre.

Diversa dal concetto di exotopia, coniato da Bachtin, con l’empatia l’operatore decontestualizza alcuni tratti dell’altrui esperienza, mantenendo valido il proprio contesto. Simula di “mettersi nelle scarpe dellaltro” ma in realtà, all’ultimo momento, “mette laltro nelle proprie scarpe”. Nell’exotopia, invece, la ricerca inizia quando, avendo cercato di mettersi all’altrui posto, ci si accorge che le sue calzature sono strette.

E la poesia?

Credetemi, potrei continuare a scrivere ancora molto e molto a lungo su questo, perché ad un certo punto ho dovuto approfondire, fosse stato anche solo per scrivere tesi che fossero un minimo accettabili; e non vi dico, da 110 e lode! Sì, certo, i numeri c’erano: il resto lo vediamo!

Ma ho dovuto studiare anche per dare un minimo di senso a quello che sto per dirvi.

Quindi, cosa stavo per dirvi? La poesia, le definizioni, le relazioni empatiche, i legami sociali… Ma anche sticazzi!

Sì, lo capisco bene che un inizio del genere non sia propriamente ortodosso e, ancor meno, porti l’idea della mia figura all’interno di un’aula di Cambridge, ma devo davvero chiedervi uno sforzo di comprensione.

Provateci un po’ voi a trascorrere 22616280 minuti, ovvero 15705 giorni, ossia 516 mesi, pari a 43 anni di convivenza forzata con chiunque, incluso il gatto nero che vi attraversa la strada, senza capire per quale dannata ragione dovete avere sempre interi condomìni di gente nel corpo, pur detestando anche solo averla attorno.

No, dico, vi sfido io a non convertirvi alla religione della misantropia!

Sono solo pochi anni che ho preso coscienza tanto di cosa stiamo parlando, quanto del perché io sia così terribilmente ed irrimediabilmente selettiva.

Il fatto è che, per esempio, l’empatico è in auto, sul sedile passeggero, il gatto nero attraversa la strada, partono le rinomate azioni e parole del caso da parte degli occupanti l’abitacolo e lui, l’empatico, tace. Intanto pensa:

– Che male ha fatto il quadrupede?

(E già qua dovrebbe farsi una domanda, posto che non ama i felini. Non che in quella domanda fosse espresso il linguaggio di S. Francesco, ma il minimo sindacale per lui, che proprio non li ama, avrebbe potuto essere infischiarsene: del resto il gatto aveva attraversato e lo avevano “deriso”, nessuno gli aveva fatto del male).

E poi parte la sensazione successiva: l’empatico si sente improvvisamente ricoperto da una pelliccia nera, ha la coda, è solo di notte al ciglio di una strada, vuole raggiungere l’altro lato dove c’è solo aperta campagna: una distesa non meglio definibile o definita di alberi perfettamente allineati, che rimandano un silenzio che supera De Andrè alla radio.

Non ha rotto le scatole a nessuno, è un felino ed è molto furbo, riesce a beccare l’istante perfetto per attraversare di corsa senza recare danno e, nonostante questo, loro devono temerlo, pensare alle peggiori disgrazie, ricorrere a non meglio specificati riti propiziatori relativi alle parti basse; lui sarà già arrivato dall’altro lato della campagna, loro, in auto, avranno percorso tutta la Salerno Reggio Calabria e staranno ancora parlando di lui.

Bene, è un felino, lo abbiamo capito. Se ne infischia della qualunque, per sua fortuna, ma sempre in una campagna totalmente buia è finito, in solitudine totale e probabilmente senza cibo, né acqua. Il tutto, mentre quegli umani sparano le peggiori idiozie e poi fanno anche finta di essere musicalmente preparati: mecojoni! Cantano De Andrè, mica Alessandra Amoroso!

– Che male avrò fatto?

Et voilà, il pensiero dell’empatico cambia il pronome. Si è fatto gatto.

Eccolo, dunque, un empatico. Per lui è sempre carnevale. Si ritrova travestito con gli abiti più impensabili, nei momenti più improponibili e pensa con la testa di quell’abito; ed è una testa non sua, ragion per cui non si può dare per assunto che quelli siano per lui pensieri immediatamente comprensibili!

Ancora una volta, in tre parole: schizofrenia portami via!

Perché, camminando “per una selva oscura, ché la dritta via era smarrita”, l’empatico non sa assolutamente cosa diavolo significhi quello che gli succede, né immagina che sia una cosa singolare. Lui conosce solo quel modo di stare al mondo, non possiede termini di paragone, non ha idea che non sia così per tutti.

È l’antica storia dei concetti che esistono grazie al loro opposto, che non sono come i concetti universali. Nel loro caso, ad esempio, si può pensare ad un rettangolo. Cosa sarà mai un rettangolo? Esiste? Lo si può toccare? Certo che no. Al più ci si può far venire in mente lo schermo di una tv, un foglio, il tavolo del salotto di casa di zia Franca. Tutto questo esiste, ma il rettangolo in sé no, non c’è.

Diverso è per il caldo, per esempio. Tanto lo si identifica quale caldo, perché si conosce il freddo; la luce, tanto la si identifica quale luce, perché si conosce il buio; la sazietà, tanto la si identifica quale sazietà, perché si conosce la fame. E così via.

Dunque l’empatico: lui non possiede termini di paragone, perché la sua patologia è inscritta nel suo DNA dacché è un embrione: assume innumerevoli personalità, uno, nessuno e centomila e non lo può capire. Vive così dacché è un bambino, una vita passata a percepire tutto, tutto, TUTTO, sempre, sempre, SEMPRE!

Tutto questo, peraltro, accade anche con le gioie degli interi condomìni che popolano il mondo e che l’empatico incontra, prima di capire che converrebbe andare a vivere in un eremo!

– Che bello, ho incontrato qualcuno felice!

#BelloNiente! Un empatico diventa talmente parte di quella felicità da sentirla prima, durante e dopo. Fino a piangerne e sentirsi scoppiare il cuore.

#ÈBellissimo! In verità è bellissimo. Ma la fatica!

E quindi, per carità, aiutatemi voi a spiegare. Posto che i numeri io li aborro, vi chiedo di compiere per me un puro atto aritmetico: moltiplicare quello che vi ho detto per ottordici, per millemila, per infinito!

Capite ora quanto possa essere sfiancate la vita di un empatico?

E badate bene, lui non si stacca mai nemmeno dalla sua, di vita: un’altra immensa botta di fortuna, da leggersi con la C maiuscola!

La morale del momento è che se l’empatico non si decide a capire il perché la sua vita funzioni così, finisce in una clinica psichiatrica.

Inizia a sentire le persone ancora prima di averle conosciute. A pelle, dice, quando ancora non sa cosa sia questo labirinto, ma almeno ha imparato ad aspettarselo.

E poi non si fida mai ciecamente delle prime impressioni: lo sa bene che le sue, in realtà, non sbagliano, ma non ce la fa a fidarsi in assenza di riscontri immediati e pratici. Del resto, non è che si possano buttare nel wc delle persone solo perché un istinto senza senso si sveglia e dice di no!

E giù di sensi di colpa, di domande, di allerta.

Cosa succede allora? Improvvisamente l’empatico capisce che ha la facoltà di attirare tanto altri empatici quanto persone totalmente prive di questa caratteristica, e sono le più pericolose. Quelle che la psicologia definisce “buchi neri”, che hanno solo bisogno di  egoistico nutrimento e succhiano linfa al prossimo, fino a fargli perdere la lucidità.

È per questo che un empatico può arrivare a detestare la compagnia: assorbe tante e tante di quelle cose che sono tutto ed il loro esatto contrario, da non riuscire sempre a farcela. Ha bisogno di ristoro. Quindi di una stanza murata: e i muri, si sa, tante cose fanno ma ancora non sanno provare emozioni.

La verità però è una: una persona siffatta viene sempre in pace. Non sempre vi chiederà come state, perché se siete trafitti, lei diventa trafitta ed è per quello che non farà domande: sa che non le gradireste in quel momento, salvo poi lasciarvi modellare dalle regole sociali, per le quali chi non chiede, è automaticamente disinteressato.

Una persona siffatta è sempre interessata, vi sente, non può farne a meno e riconosce ogni virgola: annusa la menzogna, l’imbarazzo, l’opportunismo ed anche tutti i loro opposti. Riesce, con l’istinto, a sferrare colpi da vero mentore senza lungaggini: ipso facto. Ma non vi farà mai del male, ne farebbe a sé stessa.

Ha ricevuto “il più antico sentimento dellanimo umano, che non è la paura, bensì lempatia. Prova dolore per il vostro dolore. È una benedizione e una maledizione allo stesso tempo” (Luca DAndrea).


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