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              Requiescat in pace

                           

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Ciao, sono  bergamasca che ogni giorno pensa al 18 marzo 2020.

Ve lo ricordate? In quella fredda sera di fine mese i camion militari

hanno portato via le bare dal cimitero di Bergamo

perché ormai era al collasso.

Gli italiani hanno pianto quel giorno, si sono spaventati, impauriti,

hanno realizzato: in molti avevano bisogno della foto simbolo per capire

che era tutto vero e Bergamo gliel’ha data.

Sono passati sette mesi oggi, mentre vi scrivo, ma a me sembra una vita.

In mezzo c’è stata l’estate, il caldo, le mascherine abbassate,

le cene, il ritorno degli abbracci, le discoteche, “il virus clinicamente morto”.

Diciamoci la verità: molti italiani volevano tornare all’amata “normalità”

e hanno iniziato a vedere ciò che volevano vedere e a sentire ciò che volevano sentire.

Un esperto dice che è tutto finito?

Bene, ascolto lui, sta assecondando i miei desideri,

dice proprio ciò di cui ho bisogno, e quindi, ha ragione.

E badate bene, le persone che ho descritto qui sopra non hanno tutte

la prima elementare, no, sono preoccupata

 perché la sottovalutazione l’ho vista da cervelli fini.

La mia Bergamo ha pagato il prezzo più alto, ma non è bastato:

c’è ancora chi minimizza i dati, non capendo

che l’affollamento degli ospedali toglie posti letto agli altri malati perché no,

le altre patologie non sono andate in lockdown e continuano ancora a colpire.

Avevano voglia di normalità, dicevano, ma così facendo

l’hanno allontanata ancora di più.

 

 

 

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